L'obelisco di San Domenico e il mistero dei resti ipogei

(Marisa Uberti)

Dalla Cappella e Palazzo Sansevero dei principi de Sangro, l’occhio non può evitare di incrociare la piazza che sta lì veramente a due passi, con un obelisco al centro che da essa trae il nome: San Domenico. Si tratta di uno dei quattro esemplari presenti in città[1], chiamati anche guglie, cui va aggiunta anche la guglia dell’Immacolata a Materdei. Questi manufatti sono considerati un’evoluzione delle cosiddette “macchine di festa” che il popolo erigeva nelle piazze in occasione di feste religiose e/o civili, e che venivano incendiate, ricalcando antichi rituali. La “moda” di costruire queste colonne partenopee scoppiò verso la fine del 1600, protraendosi fino al secolo seguente, e ciascuna si lega ad episodi specifici della storia cittadina. L’obelisco di San Domenico, ad esempio, fu commissionato dai domenicani e dai rappresentanti del popolo come ex-voto per essere scampati alla pestilenza del 1656. L’opera arricchisce la piazza, considerata tra le più belle del capoluogo partenopeo; su di essa affacciano palazzi nobiliari di varie epoche e per la sua vicinanza con il Palazzo dell’alchimista e massone Raimondo di Sangro, alcuni vi vedono riferimenti occulti, come la grande stella su cui giace il basamento dell’obelisco. Bisogna anche ricordare che ci troviamo nel limite orientale delle vecchie "mura greche" di Neapolis. La piazza fu un'opera commissionata dal re Alfonso I di Napoli (capostipite del ramo aragonese di Napoli, subentrando al re Roberto d'Angiò), che regnò sulla città tra il 1442 e il 1458. La piazza, che assunse probabilmente l'odierno aspetto intorno al 1600, è la "porta" del Decumano Inferiore, definisce il centro esatto del perimetro storico della città e ruota intorno all'obelisco. La piazza è quindi il crocevia del Centro antico napoletano, dove Spaccanapoli incontra Mezzocannone, la via delle Università. Da qui si arriva alla pittoresca Via dei Presepi, cioè San Gregorio Armeno. E di qui chissà quante volte è transitato il principe Raimondo di Sangro per recarsi nel suo Palazzo, nei suoi laboratori sotterranei e nella Cappella funeraria di famiglia.

A sinistra, l'Obelisco di Piazza del Gesù Nuovo dedicato all'Immacolata; a destra quello di S. Gaetano, nell'omonima piazza, si presenta come un basamento senza la parte superiore (sostituita dalla statua del santo). Sono altri due esemplari che caratterizzano il centro storico di Napoli

Sotto l'obelisco di piazza San Domenico, archeologicamente parlando, furono scoperti i resti delle Porta Cumana[2], cioè quella rivolta in direzione della più antica colonia greca della regione (Cuma). Ma non solo: c’è un autentico mistero archeologico sotto questo obelisco e parte della piazza. Lo leggiamo in un bellissimo articolo dello storico Gianpasquale Greco, “Le mura nascoste di San Domenico e la Porta Cumana”, dal quale apprendiamo retroscena sconosciuti forse anche ai residenti stessi, come si capisce scorrendo il testo. Si pensi che già all’epoca dell’erezione della guglia (1692) erano state individuate delle rovine sotterranee, tanto che l’architetto Cosimo Fanzago se ne sarebbe servito per gettare le fondamenta dell’obelisco medesimo. Menzionate da Carlo Celano, furono immortalate dai disegni di Francesco Picchiatti[3], andati perduti. Seppure a quel tempo il ritrovamento di antiche vestigia fosse cosa molto importante, inspiegabilmente non venne tributata la dovuta attenzione alla scoperta, velocemente coperta dalla guglia e probabilmente dalla risonanza di altre scoperte coeve come Ercolano e Pompei.

Il velo del mistero perdurò per secoli: milioni di persone, abitanti e turisti, hanno camminato in questa piazza in più di tre secoli (tanti ne sono trascorsi dall’individuazione dei reperti), senza sapere cosa via sia al di sotto. Veramente cosa vi sia sarebbe abbastanza chiaro, agli addetti ai lavori: durante la Seconda Guerra Mondiale, in occasione di lavori per l’installazione di una fontana, gli attrezzi della ditta incaricata incapparono in quei resti giacenti sotto la piazza, nelle vicinanze dell’obelisco. Nell’articolo del Greco si fa riferimento ad un carteggio inedito che è stato rinvenuto all’Archivio Corrente della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli, in cui emerge una vicenda fatta di burocrazia (tutta italiana).

Da un lato gli amministratori (perennemente senza fondi per le cause culturali) e dall’altro chi, consapevole dell’importanza di eseguire scavi archeologi circostanziati (come il Maiuri), mandava lettere al Podestà cittadino, descrivendo l’entità delle rovine e suggerendo pure la loro “musealizzazione”, portandole in luce e lasciandole in situ, coperte da un vetro che ne consentisse la visualizzazione da parte del pubblico. Ciò non avrebbe comportato alterazione per l’assetto urbanistico della piazza. Il progetto del Maiuri mon si realizzò mai e sebbene lo scavo fatto dalla ditta (che nel frattempo costruì la fontana in un altro punto della piazza) avesse consentito di farsi un’idea di cosa si potesse celare al di sotto, la documentazione risultò frammentaria, e quando si pensò di fare adeguati rilievi fotografici, lo scavo era già un’immondezzaio! Il prof. Roberto Pane, che vide personalmente i ruderi, riferì allo studioso Ettore Gabrici di aver intuito avanzi di costruzioni a blocchi quadrangolari, connessi senza calce (secondo la tecnica muraria greca), che limitavano piccoli ambienti. Vi riconobbe inoltre il principio di una scala di piccoli gradini e di un vano di porta ad arco”. Gli amministratori non volevano distruggere il sito archeologico, sostenevano, che andava conservato, su questo erano concordi ma non era il momento per occuparsene (prima le vicende belliche, poi la mancanza di fondi, e infine l’oblio…). Peccato che quel momento non sia mai arrivato, però. Venne tutto ricoperto con il basolato, onde evitare che qualcuno si facesse anche male, e il mistero delle vestigia non venne mai risolto. Nessuno ordinò mai vere e proprie indagini archeologiche in quel sito, nonostante il riaccendersi dell’attenzione nel 1983 in occasione della sistemazione della rete fognaria di piazza San Domenico.

Osserviamo adesso l'obelisco, che ha un'altezza notevole: 26 metri ed è coronato sulla sommità dalla statua bronzea di San Domenico. I lavori del monumento si interruppero lasciando, ad un certo punto, l'opera a metà e vennero ripresi sotto Carlo di Borbone, che ne affidò la prosecuzione all'arch. Domenico Antonio Vaccaro (1681-1750), che li portò a termine nel 1737. Notiamo dunque quanti decenni ci vollero perchè si giungesse alla conclusione di questo obelisco. Forse ci si fermò in attesa di definire esattamente che cosa fare con i resti archeologici scoperti al di sotto. La colonna partenopea si presenta costituita da tre ordini: basamento, corpo centrale e piramide. La statua di S. Domenico fu l'ultima opera ad essere posizionata, ma non si conosce il suo realizzatore; il disegno fu del Vaccaro ma essa venne apposta due anni dopo la sua morte.

Nel primo ordine si vedono due seducenti sirene bicaudate su due lati mentre il terzo è occupato da una grande lapide con la dedicazione a San Domenico, il quarto da un'altra lastra commemorativa settecentesca. Nel secondo ordine si trovano gli stemmi rispettivamente della città di Napoli, del re di Spagna, del vicerè d'Aragona e dell'Ordine dei Domenicani; nel terzo ordine vi è una profusione di santi domenicani: quattro busti rispettivamente di san Pio V, sant'Agnese, san Vincenzo Ferrer e santa Margherita, in altrettanti medaglioni collocati uno per ciascuna faccia dell'obelisco; sopra il vertice alto del terzo ordine altri quattro santi domenicani (san Giacinto, san Pietro Martire, san Ludovico e san Raimondo) e, ancora più in alto, gli ultimi quattro santi domenicani in medaglioni più piccoli santa Rosa da Lima, san Tommaso d'Aquino, sant'Antonio e santa Caterina. L'opera è arricchita di putti, festoni, conchiglie ed altri elementi che lasciamo il piacere di scoprire.

 

Sullo sfondo si staglia la sagoma della parte posteriore (abside) della chiesa di San Domenico Maggiore, che ha conferito il nome all'obelisco. L'edificio fu voluto dal re Carlo II d'Angiò e venne realizzato tra il 1283 e il 1324; al re Alfonso I di Napoli si deve la scalinata a sinistra dell'abside.

E ora andiamo a visitare lo scrigno di arte, storia, cultura e fede che è il complesso domenicano. Esso fu il pantheon della dinastia aragonese. Re, regine, principi e principesse della casata si fecero seppellire in maniera del tutto inconsueta, all'interno di bauli da viaggio i quali, in diversi casi, hanno conservato incredibilmente i corpi...

 


[1] Gli altri sono: Obelisco di San Gaetano, di San Gennaro, di Piazza del Gesù (per conoscere ubicazione e storia vedasi questo link), va inoltre ricordato l’ultimo in ordine di tempo, quello di Portosalvo (appena fuori dalla chiesa omonima, nella zona del porto)

[2] Della Porta vi erano solo i resti perchè era stata smontata e spostata già nel 1268 per essere ricostruita in piazza del Gesù Nuovo (dove sarebbe successivamente sorto l’obelisco settecentesco). Da quel momento, arricchita, fu chiamata Porta Reale. La sua collocazione non era però destinata a fermarsi in quel posto; infatti nel 1536 venne rismontata e ricostruita all’estremità nord della nuova Via Toledo e chiamata dello Spirito Santo, perché quello era il nome della zona (nelle vicinanze del palazzo d’Angri, largo VII settembre). Con un dispaccio reale, venne abbattuta nel 1775 perché ritenuta instabile a causa delle vibrazioni prodotte dal continuo passaggio delle carrozze (v. link risorsa)

[3]L’architetto ferrarese (1619-1694) eseguì una scrupolosa mappa durante la realizzazione delle fondamenta della guglia di San Domenico Maggiore; fu lui a scovare i reperti dell’antica trama muraria della Porta Cumana, che con ogni probabilità si intreccia ai resti ritrovati nel sottosuolo di palazzo Salluzzo di Corigliano, posto a non molta distanza dalla guglia (Curci, Anita, “Frammenti di Storia. Intorno al curioso e all’antico di Napoli”, Scripta Manent, febbraio 2015, v. link risorsa).