Pozzuoli romana: Anfiteatro e Tempio di Serapide

                                                   (a cura di  duepassinelmistero)
 

Dopo aver visitato l’antica Cuma, Liternum e la Solfatara di Pozzuoli,  è giunto il momento di conoscere meglio questa città, dove i fenomeni vulcanici sono forse più eclatanti che altrove. Non solo, appunto, per la presenza della Solfatara ma per il fenomeno del bradisismo, che ha fatto innalzare e abbassare la linea di costa di parecchio, nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri (ed è un processo in continua evoluzione).

Il "Tempio di Serapide" (Macellum) visto dall'ingresso

La nostra visita della città di Pozzuoli si è limitata ad alcuni monumenti rappresentativi del suo ricco passato: l’Anfiteatro e il cosiddetto “Tempio di Serapide”, di  entrambi realizzati in epoca romana. Abbiamo potuto anche apprezzare le cosiddette "Terme di Nettuno" in Via Terracciano, poco distante dall'arena, ma dislocate su terrazze digradanti verso il porto. Ma come stiamo vedendo in questo "speciale", nei dintorni abbiamo visitato molte vestigia romane di eccezionale valore.

Le origini di Pozzuoli si devono identificare nella mitica Dicearchia, di cui non sono state ancora ritrovate le tracce monumentali. Si sa che nel 531 a.C. un gruppo di fuggiaschi provenienti dall’isola greca di Samo, a quel tempo sotto la dittatura di Policrate, si insediarono sulla costa flegrea poco distante da Cuma, da cui ricevettero l’autorizzazione. La parola Dicearchia significa “città del buon governo” e qui i fuggiaschi avevano uno scalo (Epineion), controllato dai Cumani. In seguito ai mutamenti politici, fu probabilmente occupata dai Sanniti ma è con la conquista romana (338 a.C.) che nacque la colonia di Puteoli, nel 194 a.C. Il termine indicava la ricchezza di sorgenti termali naturali (pozzi emananti forte odore di zolfo) mai venuta meno, se pensiamo che una delle voci su cui si basa l’economia attuale locale (accanto all’industria e al turismo) sono proprio le cure termali che sfruttano la presenza di acque idrominerali sparse nel territorio, oltre ai fanghi provenienti dalla Solfatara.

A partire dall’imperatore Ottaviano Augusto, i sovrani cercarono di mantenere sempre ottimi rapporti con l’elite puteolana, dalla cui disponibilità dipendeva l’approvvigionamento di grano del popolo dell’Urbe (quindi la pace sociale). Augusto, Nerone e Vespasiano intervennero direttamente modificando lo Statuto politico della città, che cambiò nome sotto ciascuno, e la troviamo come Colonia Flavia Augusta Puteoli con riferimento al gentilizio dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano, che mantenne fino alla tarda antichità.

La posizione adagiata tra un promontorio e la baia, favorì l’insediarsi del principale porto commerciale di Roma, fino almeno all’inizio del II secolo d.C., quando l’imperatore Traiano fece allargare lo scalo alle foci del Tevere (e nacque il porto di Ostia). Ma Puteoli continuò ad essere un fiorente porto per i commerci con l’Oriente, specialmente con l’Egitto e le coste africane; venivano esportati manufatti in ferro e argilla, profumi, tinture… La posizione strategica di Puteoli fu sfruttata anche nel programma militare di protezione delle coste laziali e campane attuato dai Romani. Dell’antico e grandioso porto non restano nemmeno le rovine del molo, descritto come un'opera meravigliosa dai viaggiatori antichi. Originariamente era lungo quasi 400 m ed era sorretto da 15 enormi pilastri raccordati da imponenti archi: negli ultimi decenni del 1800 vennero distrutte e inglobate nella costruzione del nuovo molo. Sic transita mundi!

Le strutture erano completate dalla banchina, purtroppo soggetta ad essere sommersa per il già citato fenomeno del bradisismo. Numerose sono le iscrizioni ritrovate che attestano riparazioni già in antico, e i tentativi di rialzarne il livello, per fronteggiare l’inesorabile inabissamento. Della decantata Ripa e dell’Emporium si possono vedere i ruderi giacenti sul fondale.  Intorno al V secolo d.C. gli abitanti della zona portuale dovettero abbandonarla, a causa del suo inabissamento: alcuni migrarono verso Napoli, altri verso l’altura che un tempo doveva avere ospitato Dicearchia. E’ qui, sull’Acropoli, che si trovano gli strati della storia di Pozzuoli ed è quello che oggi si chiama Rione Terra, dove i Romani eressero uno splendido Tempio rifulgente di marmi e dedicato alla Triade Capitolina. E’ qui che si trova la Cattedrale di Pozzuoli, eretta su un tempio pagano dedicato al culto di Augusto. Il Rione Terra, dopo decenni di abbandono a causa di diversi problemi, è stato oggetto di una riqualificazione che ha portato alla scoperta del patrimonio che era stato inglobato dalle abitazioni del quartiere.  E’ possibile svolgere il percorso archeologico quasi perfettamente conservato, che rende l'idea di cos'era il Rione Terra 2000 e più anni fa[1].

Lo sperone del Rione Terra in un'immagine del 1850 conservato al Museo Archeologico dei Campi Flegrei di Baia

 

Al tempo del suo splendore sotto i Romani, a chi arrivava dal mare Puteoli doveva regalare un’impressione di magnificenza, con i suoi templi ed edifici a picco sul mare, su uno sperone roccioso alto appena 33 metri. Dopo i Romani, furono i Longobardi e poi i Normanni, fino all’avvento del Regno di Napoli, a rinforzare la fortificazione dell’Acropoli fino a quando, nel 1503, a causa di continui fenomeni sismici e bradisismici, la popolazione ottenne di costituire un nuovo quartiere, il Borgo, la prima vera espansione della città al di fuori delle mura.  Nel 1538 una violenta eruzione provocò la formazione del Monte Nuovo e danni per la città, ma non vogliamo continuare perché la storia di Pozzuoli è da rivivere visitandola, non raccontandola in poche righe! Ancora oggi abbiamo subìto il suo fascino, osservandone la sagoma dal battello che un giorno ci ha portato a Procida. Al ritorno a Pozzuoli, specialmente, si può godere di una viasuale impareggiabile del Rione Terra.

La città ebbe il privilegio di avere due anfiteatri: uno realizzato in età Repubblicana e l’altro sotto i Flavi (Vespasiano, I sec. d.C.). A differenza di altri luoghi, vennero usati in contemporanea per gli spettacoli. A Pozzuoli arrivava l’antica Via Domitiana,che la collegava direttamente a Roma, e di cui abbiamo già parlato nella pagina dedicata Liternum ma anche in altre parti di questo “Speciale” dedicato ai Campi Flegrei. Un grandioso Macellum, nell’area dell’Emporium, venne eretto sempre sotto i Flavi e oggi è ancora lì, con le sue colonne che sono diventate il simbolo della città. Per lungo tempo fu confuso con il Tempio di Serapide, per via di una statua del dio egizio che vi era stata ritrovata e che è oggi conservata nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei (del Castello Aragonese di Baia), insieme alla moltitudine di reperti scoperti a Pozzuoli e nel territorio circostante. Citeremo un mosaico ritrovato nella zona suburbana orientale della città, databile tra il I e il III sec. d.C., pertinente alle terme di una domus. L'ambiente aveva le pareti completamente rivestite di marmo cipollino; il grande pavimento musivo aveva dimensioni di 6,90 x 3, 80 metri ed era costituito da tessere bianche e in pietra vulcanica nera. Nel campo figurato centrale si stagliano due coppie di lottatori, riconoscibili per i nomi riportati sopra le loro teste: a destra si legge ancora bene ELIX mentre l'altro nome è illeggibile; a sinistra MAGIRA e ALEXANDER. Sono atleti che stanno partecipando a dei giochi che sembrano potersi identificare in quelli dedicati a ISIDE (Giochi Eusebici). In effetti, al di sopra del pilastro centrale, vi è un cartiglio (tabula ansata) con l'iscrizione ISEO EVSEBIA. Ma dov'era il santuario per il culto di Iside nell'antica Puteoli? Gli studiosi ritngono fosse nella zona occidentale, nella ripa puteolana, oggi sommersa a causa del bradisismo. I giochi Eusebici si svolgevano ogni cinque anni nello stadio eretto da Antonino Pio in onore del padre Adriano, sui resti della villa di Cicerone. Nel mosaico, centralmente, si trova un pilastro davanti cui si staglia un ramo di palma allungato, elemento spesso associato ai vincitori di giochi; poco sopra vi è una corona agonistica e un marsupio con una cifra in numeri romani CL (150), che si ritiene fosse la cifra vinta dall'atleta che si era dimostrato il migliore. 150 denari, quindi. A destra del pilastro, posato per terra, si osserva un cratere a corpo sferico su piede campanulato con orlo estroflesso; contiene due fiori di papiro. Anche questo elemento è spesso associato a scene atletiche, in cui il vaso può essere il premio oppure contenere olio o sabbia finissima, con cui venivano cosparsi i lottatori. Possiamo azzardare chi fosse il vincitore nella scena, poichè ha accanto al nome un ramoscello di ulivo, simbolo di vittoria (ELIX). Tutti gli atleti hanno i capelli acconciati con il caratteristico ciuffo (cirrus), volti inespressivi, corporature massicce. Le masse muscolari sembrano messe in evidenza dalle tessere bianche lungo il corpo.

Bellissimo mosaico dalla villa del suburbio orientale di Puteoli (Museo Archeologico dei Campi Flegrei)

 

  • L’Anfiteatro di Pozzuoli

E’ stata un’ennesima emozione, visitare questo grandioso monumento dell’epoca romana a Pozzuoli; si pensi che è il terzo più grande tra quelli costruiti dai romani[2] e il suo buon stato di conservazione (soprattutto dei sotterranei) lo si deve all’attività della Solfatara che, nei secoli, lo ha ricoperto di materiali che lo hanno – per così dire – sigillato. Non è stato immune, come abbiamo già imparato, dal fenomeno del bradisismo. Lo si incontra al termine della Via Domitiana, praticamente “incastrato” nel fianco della collina della Solfatara e da questa circondato per la maggior parte del suo perimetro; è chiamato anche “maggiore” perché vi era un secondo anfiteatro in città, come abbiamo già accennato, che era stato realizzato qualche tempo prima, in epoca repubblicana.

 

Di forma ellittica, l’Anfiteatro Neroniano-Flavio fu iniziato sotto l'imperatore Nerone e completato sotto Vespasiano tra il 70 e il 79 d.C.; presenta l’asse maggiore lungo 74,78 m e il minore 42 m. Aveva una capienza di 40.000 spettatori. All’esterno doveva essere preceduta da un monumentale portico, di cui non restano tracce ma comprendeva tre ordini di arcate sovrapposte poggianti su pilastri, anticamente coronate da un attico che correva lungo tutto il perimetro dell’edificio. L’accesso all’anfiteatro avveniva tramite un ingresso principale monumentale e altre quattro porte secondarie. Dovevano trovarsi molte statue in questo portico e nell’attico, purtroppo tutte perdute, forse usate nella fornace medievale per la calce, che è stata ritrovata all’interno dell’edificio con gli scavi. Fortunatamente, attiguo a questo locale, fu ritrovato nel 1939 un gruppo di statue onorarie maschili e femminili, risalenti al II secolo d.C. Numerosi reperti si possono ammirare nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei, allestito nel Castello Aragonese di Baia, e nel Museo Archeologico  Nazionale di Napoli. Cospicui reperti sono presenti tutt’oggi nell’area archeologica dell’Anfiteatro.

Il complesso era dotato di sistemi di raccolta e smaltimento delle acque piovane, che venivano poi smaltite nel fognone centrale, insieme a quelle di lavaggio dell’arena. Il complesso sistema –che qui non stiamo a descrivere ovviamente - rappresenta un’opera di ingegneria idraulica di eccezionale interesse. Per la pulizia dei condotti vi erano dei pozzi nei quali si scendeva tramite una serie di botole situate nel piano di corridoio del retro podio che venivano ovviamente chiuse con tavole lignee quando si apriva l’arena al pubblico e la gente doveva prendere posto sulle gradinate (chiamate cavea). Queste ultime erano scandite da corridoi concentrici in tre ordini sovrapposti ed erano ulteriormente divise in tre settori (maeniana) da apposite rampe di scale radiali. Gli elementi divisori erano costituiti da corridoi protetti da parapetti (praecintiones) sui quali sboccavano i vomitoria, cioè i passaggi voltati attraverso i quali gli spettatori potevano raggiungere l’arena. La struttura poteva essere coperta con un velario, cioè un tendaggio protettivo fissato a grandi pali che erano infissi nella parte superiore esterna del muro e facevano da tiranti. I gradini dell’ ima cavea (bassa gradinata) erano disposti su otto file ed erano largi 85 cm, la media cavea ne contava 16 e la summa cavea 15. I posti a sedere erano regolati secondo un rigido sistema di classi di appartenenza (un po’ come oggi che chi più paga, meglio è sistemato, niente di nuovo sotto il sole!).

I restauri succedutisi nel corso degli anni dalla sua riscoperta, ha portato a ricostruire le gradinate inferiori ad un livello più alto dell’originale (ma erano ottimamente conservate!) e furono anche – in altra occasione- ricoperti con sedili lignei, fortunatamente asportati, cosi che oggi vediamo quelli originali. Uno dei più cospicui restauri è avvenuto nel 1977 ad opera dell’arch. E. De Felice.

Dall’estremità dei corridoi dipartivano otto rampe di scalette che scendevano nei sotterranei ed erano usate soltanto dal personale di servizio. Sul piano dell’arena si trovavano numerose botole rettangolari: erano i cosiddetti “pozzi di manovra”, dove sbucavano argani e macchine di sollevamento alloggiate nei sotterranei. Normalmente, quando non venivano usati, erano chiusi superiormente da tavolati di legno. La grande fossa rettangolare aperta lungo l’asse maggiore per una lunghezza di 43 metri (media via), ancora oggi perfettamente visibile, costituiva il punto dove venivano innalzati i fondali scenici. Dalle botole arrivavano direttamente le gabbie delle belve, ma da alcune di esse salivano i gladiatori tramite degli ascensori ante-litteram; i marchingegni erano camuffati da cartapesta e l’effetto per gli spettatori doveva essere di grande impatto perché d’un tratto, durante la scena, dai sotterranei potevano comparire nell’arena attori, figuranti, cori in costume, o gladiatori e belve, a seconda dello spettacolo. Non solo, potevano sbucare per incanto anche scenografie, come foreste o grotte! I protagonisti comunque potevano entrare nell’arena anche attraverso un altro passaggio, dal corridoio retrostante il podio della cavea. Tutto ciò richiedeva una perfetta logistica, oltre ad un’ingegneria non comune. Erano gli schiavi che avevano il compito di mantenere pulita l’arena: la sabbia veniva rastrellata e inumidita per evitare che infastidisse gladiatori e spettatori; il terriccio non doveva bagnarsi troppo sennò si sarebbe trasformato in fango, quindi l’acqua veniva spruzzata da piccoli otri in pelle.

I sotterranei sono il vero gioiello di quest’opera colossale. Le campagne di scavo iniziate alla metà del XIX secolo proseguirono dal 1839 al 1855 ma per liberare completamente la struttura dal materiale alluvionale infiltratosi nei corridoi, attraverso i pozzi e la media via si dovette attendere il 1947. Si pensi che nell’area centrale era cresciuto un vigneto, grazie all’humus: nei secoli, infatti, la discesa di terreni alluvionali dalla Solfatara l’aveva ricoperta ed era divenuta fertile come un campo! Inoltre, gli scavatori non ritrovarono soltanto materiale alluvionale nei sotterranei ma fusti di colonne e capitelli: come vi erano arrivati? Non potevano essere stati trascinati dall’acqua, perché non avrebbero potuto infilarsi negli stretti pozzi e poi  sembravano essere stati collocati intenzionalmente. Si capì in seguito che erano stati i contadini che avevano impiantato delle case coloniche nell’Anfiteatro: dovendo liberare le superfici, fecero piazza pulita degli antichi resti! Che per fortuna ancora giacevano nei sotterranei.

Lo spazio dei sotterranei è strutturato attorno a due corridoi rettilinei che corrono lungo l’asse principale della costruzione e che, incrociandosi, determinano quattro distinti settori; un terzo corridoio curvilineo cammina sotto il muro del podio dell’arena; muri e pilastri che sostengono il piano dell’arena formano così ambienti aperti e comunicanti tra loro. Sul corridoio ellittico si aprono 40 cellette voltate su due livelli mentre lungo le pareti sono infisse mensole di pietra destinate a sostenere un assito di legno: è su questo che venivano fatte scorrere le gabbie delle fiere. Un ambulacro ellittico perimetrale faceva parte del sistema di passaggi. I sotterranei si trovano a circa 7 m di profondità. Molto interessante è che a circa 4 m sotto il piano di calpestio del settore settentrionale dei  sotterranei scorre, con direzione Nord-Sud, una diramazione dell’acquedotto Campano; si tratta di un braccio della lunghezza di 69 m e una sezione variabile tra 1,5 e 4 m, ma a cosa serviva? Inizialmente, dopo la sua scoperta, si pensò che il ramo potesse servire ad allagare lo spazio dell’arena quando si svolgevano battaglie navali (naumachie), ma in quel caso non dovevano esservi strutture sotterranee che, invece, sono assolutamente originarie, quindi quell’ipotesi decadde. Agli studiosi embra più verosimile, per le conoscenze attuali, che il ramo servisse dunque per le operazioni di pulizia dei sotterranei e dell’anfiteatro, regolarmente soggetti ad allagamenti provocati dalle alluvioni.

Nell’Anfiteatro non mancava lo spazio dedicato al culto, che qui è stato rinvenuto al centro del lato Sud, al di sotto della prima pre-cinzione: qui si trovava un ambiente absidato lungo 8,40 m e largo 5, 77, pavimentato con ricchi marmi eccetto che sul lato occidentale dove si trovava invece un fine tessellato bianco. Le pareti erano tutte rivestite con lastre di marmo (crustae). A chi fosse dedicato il Sacello non è stato chiarito ma si ritiene fosse una divinità tutelare del luogo (Genius loci) o riferita agli imperatori.  La Cappella non era nel progetto originario ma fu aggiunta in un secondo momento, ed era sovrastata da un palco (tribunal), forse destinato alla famiglia imperiale. Nell’aggiungerla venne ristrutturata anche tutta la gradinata sovrastante.

La tecnica costruttiva del monumento è l’opera cementizia con ampie specchiature in opera reticolata di tufo e catene angolari in laterizio; quest’ultimo materiale riveste tutti i paramenti delle strutture portanti e quella dei sotterranei. Le volte sono in conglomerato di tufo gettate su centine in strati orizzontali; in corrispondenza degli assi principali, dove le volte poggiano su pilastri, il conglomerato fu alleggerito usando la pomice invece del tufo.

Nella II metà del II secolo d.C. l’intera struttura, forse a causa di cedimenti strutturali, subì notevoli danni e conseguenti restauri; fu allora che diversi ambienti dell’ambulacro furono occupati dalle scholae, cioè sedi di associazioni professionali, le Corporationes, per lo più legate al mondo dello spettacolo, che probabilmente avevano sponsorizzato (finanziandolo), il restauro. Il termine, tuttavia, identifica anche un luogo dove si potevano svolgere lezioni di qualunque tipo, o una caserma, una palestra o un collegio sacerdotale. L’Anfiteatro era quindi un luogo di aggregazione sociale e centro della vita urbana. Nel 305 d.C. la tradizione narra che proprio qui sarebbe stato portato San Gennaro (allora vescovo di Benevento) con due compagni per essere sbranati dalle fiere, le quali si ammansirono alla sua preghiera benedicente; la pena sarebbe stata sospesa e i tre comunque condotti alla vicina Solfatara dove furono decapitati (ne abbiamo parlato nella relativa sezione). Nel 1689 venne eretta una chiesetta, all’interno dell’Arena, per ricordare quel lontano avvenimento! Distrutta con gli scavi ottocenteschi, fu sostituita da una Cappellina tutt’ora visibile nell’ambulacro.

L’Anfiteatro rimase nei secoli sempre parzialmente in vista ma ha riacquistato il suo immenso valore con i restauri del XX secolo (e probabilmente c’è ancora qualcosa da scoprire).

 

  • Il Tempio di Serapide (Macellum)

Scendendo verso il porto, meglio a piedi, lo si vede subito e il nostro cuore ha un sobbalzo: un meraviglioso pezzo dell’antichità romana tra moderni edifici e il mare! I viaggiatori antichi e moderni, lungo i secoli, lo hanno descritto a volte asciutto altre volte sommerso dall’acqua. Fin dal I secolo d.C. agli ultimi decenni del XX secolo, il fenomeno del bradisismo è stato particolarmente visibile su questo edificio, come dimostrano gli studi condotti sulle sue vestigia e sugli strati sedimentatisi nel sito. Il terreno sul quale si trova ha subito abbassamenti e innalzamenti notevoli, anche dell’ordine di alcuni metri: ciò ha determinato a più riprese la sua parziale sommersione.

Le colonne antistanti la cella absidata mostrano, a diverse altezze, tracce della presenza di molluschi marini, corrispondenti ai vari livelli di allagamento che hanno coinvolto la struttura. Si tratta di fori dei litodomi (molluschi foraminiferi che vivono a pelo d'acqua), i quali indicano chiaramente il livello più alto a cui è giunta l'acqua del mare (5,719 m dal fondo), tra il 1200 e il 1500. Dopo tale data, il tempio gradualmente “riemerse”, si asciugò e potè essere studiato accuratamente. Nel 1750 iniziarono gli scavi da parte dei re borboni e fu scoperta la statua di Serapide, donde l’erronea convinzione che si trattasse del tempio a lui dedicato. In realtà la statua pare fosse stata ivi collocata perché protettrice del commercio. Ma è comunque significativo come, a quel tempo, i culti egizi fossero in auge. Un calco in gesso dall'originale in marmo è conservato nel Museo Archeologico dei Campi Flegrei, allestito presso il Castello Aragonese di Baia; la bellissima opera è datata fine II-inizio III secolo d.C.

Il grande mercato pubblico di Puteoli aveva dimensioni maestose: era lungo 75 m e largo  58 m ed era eccezionale per la bellezza dei marmi e dei mosaici impiegati. Un portico colonnato delimitava un grande cortile su cui affacciavano le botteghe (tabernae); l’ingresso si trovava sul lato corto che guardava verso il mare. Sull’altro lato corto si trovano tre colossali colonne di marmo cipollino (11,78m senza il capitello), che precedevano una cella con abside rettangolare, coperta da una semicupola ed ornata di statue e ai lati altre due absidiole (più piccole). Le colonne erano quattro, in origine (una è stesa sul pavimento) e vi erano altre  due colonne sull'allineamento del vano d'ingresso alla cella, nella quale doveva trovarsi la statua del dio egizio Serapis.

Probabilmente, ritengono gli studiosi, dovevano trovarsi altre statue, come quella di Iside (Fortuna) e del Genius loci, oltre che dei membri della famiglia imperiale. Il Macellum rappresentava, quindi, un importante centro commerciale che si poneva sotto l’auspicio delle sacre divinità protettrici dei commerci e delle fortune della città di Puteoli. Ai lati di questa cappella, in corrispondenza degli angoli del cortile, si trovavano le latrine pubbliche, due grandi sale che erano state sfarzosamente ornate di marmi come il resto del complesso! Nel cortile quadrilatero vi era, centralmente, un podio circolare con sedici colonne (di cui restano le basi) in marmo africano e fregi ad animali marini sul basamento. In realtà la struttura a tholos centrale ci è parsa abbastanza enigmatica.



[2] Dopo il Colosseo a Roma e quello di S. Maria Capua Vetere