Chiavari, misteri tra la necropoli

                                                                                                       (Marisa Uberti)
 
Dopo aver percorso itinerari ormai scomparsi della Genova romana[1] e aver visitato il Museo Archeologico della Liguria situato a Genova Pegli[2], continuiamo il nostro viaggio nel Levante ligure alla ricerca di antiche tracce e di nuovi enigmi, quelli di cui - varcati i confini della regione – la gente sa poco o nulla. Ricordiamo anche l’evento cui abbiamo partecipato, al Museo di Pegli, la sera del 28 Ottobre 2017, in cui è stato presentato per la prima volta il cosiddetto “Disco di Libarna[3]. Adesso però è il momento di visitare uno tra i poli museali più interessanti del territorio (tra l’altro uno dei pochissimi ad ingresso gratuito a livello nazionale, probabilmente), il Museo Archeologico di Chiavari[4]. La città è considerata la terza più popolosa della provincia metropolitana di Genova (dopo la stessa Genova e Rapallo) ed è certamente il centro commerciale del Golfo del Tigullio, nonché sede di Diocesi dal 1892. La città di Chiavari è separata da Lavagna dal torrente Entella ed è percorsa dal torrente Rupinaro. Una parte affaccia sul mare mentre una parte si abbarbica nell’entroterra. Fin dai tempi antichi la sua posizione fu strategica, allo sbocco di quattro valli (Val Fontanabuona, Valle Sturla, Val Graveglia e Val d’Aveto), importantissimo crocevia di passaggio, quindi, che forse residua nel suo toponimo, derivante probabilmente dal termine Ciavaro (chiave), presente in un antico documento del 980. Ma su tale argomento non vi è accordo tra gli studiosi e, per un approfondimento, si suggerisce di visitare questo link.

La necropoli di Chiavari

Decidiamo di visitare il Museo Archeologico, dove “ci hanno detto” essere conservati dei reperti molto intriganti e ancora enigmatici che riguardano un’antica necropoli pre-romana, e di cui si ignorava l’esistenza (fino alla sua scoperta). Il Museo è allestito nelle scuderie del seicentesco Palazzo Rocca e fu inaugurato nel 1985 al fine di valorizzare e salvaguardare i reperti provenienti dalla necropoli ritrovata nel 1959 nell’attuale Corso Millo. Come spesso accade, si dovevano effettuare scavi per le fondamenta di un palazzo e invece le ruspe hanno incrociato il passato remoto.

 

Le campagne di indagine della Soprintendenza Archeologica della Liguria hanno potuto affermare che si trattava di un cimitero la cui datazione è compresa tra l’ VIII e il VI secolo a. C. Molto prima dell’era romana nel territorio, quindi, una necropoli dell’Età del Ferro! Fu il professor Lamboglia a rimetterne in luce la prima vasta porzione, tra il 1959-’60, cui seguirono altre quattro campagne di scavo (fino al 1970) che portarono alla luce oltre 120 tombe ad incinerazione, pertinenti ad un popolo che abitava il Tigullio in epoca pre-romana: iTigullii. La scoperta suscitò grande scalpore perché fino a quel momento poco si sapeva della loro esistenza[5]; inoltre la necropoli chiavarese la più estesa ed articolata necropoli di tutta la Liguria. La cultura dei Tigullii si deve intendere come una derivazione di matrice celto-ligure, che credeva nell’aldilà, eseguendo infatti dei rituali funerari ben precisi. Anzitutto conoscevano molto bene l’uso e la lavorazione dell’ardesia (di cui parleremo anche nell’articolo su Lavagna), che avevano probabilmente mutuato dal mondo etrusco, ben attestato in zona (o viceversa?). La Necropoli si componeva di monumenti funebri circondati da recinti sepolcrali quadrangolari, realizzati con lastre di ardesia infisse verticalmente nello strato sabbioso del terreno[6]. In questi recinti erano collocare una o più “cassette litiche” che costituivano la tomba vera e propria, contenente le urne con i residui ossei combusti e i relativi corredi funerari. I recinti ritrovati sono stati 96, tutti rettangolari meno tre, che erano circolari (come mai?). I recinti si addossavano gli uni agli altri, formando tre complessi separati costituenti, ciascuno, un complesso funerario autonomo, forse di pertinenza di tre diverse famiglie. Gli scavi, però, hanno anche appurato che la necropoli si era impiantata su un sito più antico, risalente alla fine dell’età del Bronzo (XII-IX sec. a. C.), che un tempo si doveva trovare molto più vicino al mare (circa 400 m dal mare). La sua collocazione si interpone tra la collina del Castello e il torrente Rupinaro. Uno degli aspetti più interessanti è che dei 124 arredi funebri ritrovati, in particolare nella parte A, più ricca ed antica, su 41 arredi funebri ben 32 sono femminili e solo 9 maschili. 

 

A sinistra, urna cinerario con decorazione,  a destra due splendidi anelli-paradita che, con una coppia di orecchini, costituiscono gli unici oggetti d'oro dei corredi funerari scoperti nella necropoli

 

Il materiale di corredo rinvenuto nelle tombe ha consentito agli studiosi di capire che l’insediamento fosse evoluto, pienamente inserito in un ampio sistema di traffici commerciali lungo le rotte alto-tirreniche; dovevano essere stretti i rapporti con gli scali della Versilia e dell’entroterra pisano, con l’Etruria meridionale[7] e, verso nord, anche con la cultura di Hallstatt e di Golasecca. Perché scomparve? Forse la fondazione di Marsiglia generò un nuovo riassetto dell’alto Tirreno, inoltre la sconfitta etrusca ad Alalia può aver giocato un ruolo determinante. Ma sono ipotesi. Sopra la necropoli, che venne ricoperta, furono in seguito eretti un’abitazione e un pozzo, scavi di trincee e fosse per l’impianto di un vigneto. Le ceramiche ritrovate sono state datate tra il I e il IV secolo d.C. quando la piana fu sfruttata per uso agricolo in età imperiale. Ma tra la fine dell’uso sepolcrale (VI secolo a.C.) e il periodo romano imperiale, cosa ne fu dell’area?

I curiosi “dischi” delle tombe femminili

Avevo “sentito parlare” di questi dischi, prevalentemente in bronzo, ritrovati in modo cospicuo tra i corredi funerari della necropoli.  Naturalmente parliamo delle tombe più ricche, pertinenti a persone di rango o che dovevano costituire un'importanza speciale rispetto al resto della comunità Ebbene, in questi corredi, i dischi (o placche) erano presenti in 21 tombe; in 17 il disco è di bronzo ed in quattro è d' "argento". In due tombe se ne trovano perfino due, quindi ve ne sono 23 in totale. Nelle vetrine del museo, però, si possono vedere soltanto un disco di bronzo e un frammento di un disco d’argento, i restanti sono nel deposito. Poco è dunque possibile osservare sulla loro superficie e le didascalie a corredo li indicano come oggetti di abbigliamento (sorta di fermagli).

A sinistra un disco di bronzo e, a destra, frammento di un disco d'argento. Sono custoditi in due vetrine diverse. "Il disco d'argento"- dice la didascalia a corredo- "è uno dei meglio conservati; è realizzato su di una lamina d'argento decorata a sbalzo con punzonature sulla fascia più esterna, e puntini che disegnano forme geometriche nella fascia più interna. I puntini forse rappresentano 4 figure stilizzate di oranti"

Spiegazione del museo in merito al reperto e indicazione del suo possibile utilizzo come oggetto ornamentale dell'abbigliamento della defunta

In una recente corrispondenza privata con l’archeoastronomo e amico Mario Codebò (Genova), egli mi ha parlato di uno studio condotto specificamente su un disco d’argento della necropoli chiavarese da parte dell’ing. Enrico Campagnoli che, per uno strano gioco del destino, ho avuto il piacere di incontrare alla conferenza del 28 ottobre 2017 presso il Museo Archeologico di Genova Pegli. Il dialogo è inevitabilmente caduto su questo argomento, di cui ho iniziato ad essere incuriosita, specialmente dopo la visita al Museo Archeologico di Chiavari. Il dr. Campagnoli ha pubblicato un libro alla fine del 2015 intitolato “Tracce di una civiltà nel Tigullio di 3.000 anni fa” (Ed. Tigulliana, 2015)[8] in cui ha raccolto anni di indagini scrupolose che, dalla fine degli anni ’90 del XX secolo, ha portato avanti insieme ad un gruppo di ricercatori tra loro amici. La raffinatezza delle conclusioni cui fino ad ora sono giunti è strabiliante; l’ipotesi è accattivante ed è sperimentabile, riproducibile, dunque…scientifica. Fa fatica, tuttavia, ad entrare nella mentalità accademica, dato che le didascalie al museo chiavarese non ne fanno cenno. Siccome riteniamo che valga la pena far conoscere questo studio, proviamo ad illustrarlo ai nostri lettori, sempre attenti alle nuove scoperte e al loro valore. Dopo le tesi di G. Cossard e W. Riva sul Disco di Libarna, andiamo a conoscere più da vicino il disco d’argento della necropoli di Chiavari.

Il disco d’argento della T46. Anzitutto il dr. Campagnoli e i suoi amici hanno potuto avere un permesso dal direttore del Museo chiavarese per fotografare in alta risoluzione i dischi. In effetti constatiamo che ciò che si osserva è alquanto chiaro da questa foto (mentre al museo non sono riuscita a vedere alcun dettaglio). Allora ecco che appaiono anche le presunte "figure di oranti" di cui parlava la didascalia museale. Ma cerchiamo di capire a cosa servissero, invece, secondo le ipotesi alternative.

Secondo il team del dr. Campagnoli, la maggioranza delle tombe scoperte in detta necropoli è di tipo femminile, il che porta a considerare che la comunità fosse prevalentemente di donne. Curioso! Il punto in cui sorgeva l’antico cimitero era appena fuori dalle mura dal vecchio castello di Maxellasca, che si ergeva nelle immediate vicinanze dell’attuale castello di Chiavari. La presenza di una necropoli presuppone l’esistenza di un abitato e il gruppo di ricerca, dopo le opportune indagini, ha trovato che a quel tempo (VIII-VI sec. a.C.) Chiavari non era ovviamente come oggi, ma esisteva con tutta probabilità una laguna, ove si protendevano almeno quattro promontori e forse all’imbocco vi era un isolotto[9]. Il lettore ponga attenzione a queste descrizioni perché servono per comprendere il funzionamento del disco, di cui diremo. Ma quale disco, se ne sono stati trovati tanti? E’ così, ma tutti gli altri si presentano fortemente compromessi nella lettura dei dettagli, soprattutto per le condizioni ambientali in cui ha versato la necropoli per secoli e secoli. L’unica placca integra e leggibile si è rivelata essere quella d’argento della Tomba 46 (T46). 

Le placche hanno tutte un diametro medio di ca 8 cm ma appunto si è lavorato sull’unica leggibile. E che cosa si è osservato? Sul perimetro più esterno si trovano 28 borchiette che il team di ricerca ha identificato come lune (nelle sue diverse fasi mensili), e dei segni geometrici che, per quanto nitidi, non consentivano un’interpretazione plausibile e a lungo si è “brancolato nel buio”, fino a quando si scoprì che la riproduzione della placca si sovrapponeva ad un’immagine di un libro di Logman del 1583, “The fine flowers of histories”, che si trova presso l’archivio Turco-Islamico di Istanbul. Quell’immagine rappresentava il tema natale della città di Bagdad: vi sono le lune attorno con le fasi lunari, i segni zodiacali, le sette orbite degli astri che interessavano le attività astrologiche. Da lì si cominciò a pensare che il disco fosse in relazione con il tema natale della proprietaria della T46 e vennero cercati quindi i segni zodiacali ed i sette astri nelle corone circolari sottostanti. “Il risultato fu positivo”- scrive Campagnoli - “nonostante le condizioni della placca. Fu trovato il segno dello Scorpione ed a trenta gradi il segno del Sagittario; a trenta gradi, appena visibile, sembra anche esserci il segno dell’Acquario. Furono trovati, fra l’altro, Marte, Giove, Venere, il Sole e l’Idra, una costellazione particolarmente significativa. Su altri elementi astrologici esiste qualche dubbio interpretativo, come per esempio per la rappresentazione di Sirio”. Il disco, come prima funzione, poteva dunque essere stato un oroscopo, anzi i giornali locali titolarono “L’oroscopo più antico del mondo”!

Ma il gruppo di ricercatori proseguì le indagini e scoprì un’altra importante funzione del disco, quella di astrolabio piano. “La ricostruzione della placca senza tema natale fu utile per comprendere il suo possibile uso come astrolabio: come si vede, la placca consente di dividere il cerchio ( e lo spazio ) in 12 e 16 parti uguali. La divisione in dodici è utile per identificare le costellazioni dello Zodiaco e per leggere le ore. Fra due raggi infatti intercorrono 30 gradi, pari a due ore del moto apparente solare”. La divisione dello spazio in 16 parti fa pensare alla divisione del templum e della città. Ricorderemo infatti la suddivisione che gli Etruschi facevano del cielo (templum celeste), e di conseguenza dello spazio terreno (templum terrestre) dove costruire opportunamente tutta la città. Al centro il mundus e i due assi principali che da esso diramano. Ciascun edificio doveva avere una corrispondenza con una porzione di cielo fausta o infausta. La città in cui viveva la comunità sepolta nella necropoli chiavarese sembrerebbe perfino fondata, pianificata, costruita in modo da essere funzionale all’uso della placca circolare. Vi sono “tre costruzioni sulla punta di tre promontori, oggi tre chiese che sono allineate nord-sud proprio nello spicchio dedicato al dio Sole, proprio dove vi è la necropoli ed il Castello di Maxellasca. Tale allineamento facilitava particolarmente l’uso della placca come astrolabio”.

Il disco poteva avere l’importante funzione di conoscere quando una donna era feconda e perfino di prevedere la data presunta del parto. Consentiva di leggere l’ora, il giorno ed il mese dell’anno, ed anche l’anno, che tuttavia era meglio definito dal ciclo lunare. Ma credete sia finita qui? Vi sbagliate. Il disco era una sorta di “software”, di meccanismo scientifico astronomico (intellettuale e manuale) che consentiva di prevedere con precisione il sorgere ed il calare del sole, di prevedere gli equinozi e i solstizi; di prevedere le eclissi. Inoltre indica il Nord celeste e dà la latitudine del luogo in cui ci si trova. Voi pensate che potere aveva colei che possedeva uno strumento simile. Ma dove sarebbe stato costruito questo oggetto? Come giunse nella comunità prevalentemente femminile di una Chiavari dell’VIII-VI secolo a. C.? Queste donne stavano su un approdo marittimo: che tipo di comunità era? Sacerdotesse? Astrologhe/astronome? Maghe? Sicuramente alcune di loro si, erano personaggi fuori dall’ordinario. Questa ricerca è dinamica, per stessa ammissione del dr. Campagnoli, di cui invitiamo caldamente i lettori a leggere l'intera ricerca e i risultati, che noi abbiamo sintetizzato al massimo (anche perchè lo "strumento" funziona anche oggi, sostiene Campagnoli, quindi se qualcuno volesse provare, lo faccia). Soltanto nuove scoperte, nuovi raffronti, nuove soluzioni interpretative potranno confermare definitivamente le ipotesi (peraltro ben corroborate da numerosi dati oggettivi, come il libro dello studioso illustra) o confutarle con il metodo dimostrativo. Per il momento manteniamoci curiosi, e non smettiamo di farci domande, mentre proseguiamo il nostro viaggio nella Liguria di levante.

 

[1]Vedasi il nostro video Genova insolita 1

[2] Vedasi il nostro video Genova insolita 2

[3] L’oggetto, considerato un peso da telaio, è rimasto nei magazzini dalla sua scoperta (fine XIX secolo) fino all’anno scorso, quando è stato riconosciuto come un possibile calendario luni-solare e un indicatore del Nord celeste dal prof. Guido Cossard e dal dr. Walter Riva. A questo link trovate il report della conferenza

[4] Nonostante sia allestito in uno spazio ristretto e alcuni reperti siano stati trasferiti nel nuovo MUSEL di Sestri Levante, ha conquistato il ruolo di agenzia culturale di riferimento per il comprensorio. Insieme al Museo Archeologico di Sestri L.  e al polo archeominerario di Masso (sede di Castiglione Chiavarese) è integrato in una rete espositiva territoriale

[5] Ne parleremo anche visitando il Museo Archeologico di Sestri Levante

[6] L’area archeologica si trovava semisommersa dall’acqua, poiché la zona si era impaludata nel corso del tempo

[7] Molto probabili Baratti e Populonia

[8] Scaricabile da questo indirizz o in formato pdf

[9] Approfondimenti nella pubblicazione “Le Guardiane del Cielo” di E. Campagnoli, scaricabile tramite QRCode dal pdf indicato nella nota precedente