Sestri Levante insolita

(di Marisa Uberti)

 

Eravamo rimasti che, da Cavi Borgo (frazione di Lavagna), si possono raggiungere i suggestivi ruderi della chiesa di Sant’Anna, tramite l’antica Strada Occidentale Romana (a piedi). Ma riprendiamo l’automobile e dirigiamoci a Sestri Levante attraverso la SS. Aurelia litoranea  e con galleria panoramica sul mare. Dobbiamo immaginare, in antico, una situazione diversa dall’odierna: una collina (Malpasso) divideva completamente, via terra, Cavi Borgo da Sestri L. Nel XII secolo a Cavi Borgo aveva sede un hospitale “di strada “ che si incontrava superando il Malpasso attraverso due strade, una mulattiera (di origine forse non romana ma medievale su preesistenze più antiche) e una strada tre volte più lunga e atta al passaggio di carri con traino animale. La “moderna” direttrice litoranea  è stata realizzata nel XIX secolo; ed ebbe come conseguenza l’abbandono delle altre due vie e anche la chiesa di Sant’Anna, situata sull’antico passaggio, subì la medesima sorte, cadendo nell’oblio.

Tre-quattro chilometri in macchina da Cavi Borgo e si giunge nella turistica cittadina di Sestri Levante, d’estate presa d’assalto; nel mese di ottobre si sta d’incanto, c’è il vantaggio di trovare parcheggi liberi e nei giorni feriali anche gratuiti. La splendida località del Tigullio è chiamata anche la “città dei due mari”: il centro storico affaccia, infatti, su due baie (divise da una lingua di terra o istmo): quella più grande è chiamata “Baia delle Favole” e la più piccola è detta “Baia del Silenzio”. La prima deve il nome al grande scrittore danese Hans Christian Andersen (1805-1875), che fu ospite della cittadina nel 1833; la sera, mentre soggiornava in una locanda e non era ancora famoso, scrisse dei versi ispiratigli dalla bellezza del tramonto sul mare.

Questi versi si possono leggere su un muro nelle vicinanze della chiesa di S. Maria di Nazareth. Inoltre, in omaggio al favolista, si tiene annualmente il Premio Andersen. Fu Enzo Tortora, in una puntata della trasmissione “Campanile Sera”  (andata in onda proprio da Sestri Levante) a definire la baia “delle favole” e da allora in toponimo è rimasto. La Baia del Silenzio è il termine coniato, invece, nel 1919 dal poeta Giovanni Descalzo, che visse a Sestri. Effettivamente, passeggiando per i suoi carugi, lungo il viale a mare costellato di palme rigogliose e specialmente arrampicandosi lungo le salite panoramiche, si può facilmente capire come abbia ispirato poeti, scrittori, signori e nobili, che qui vi eressero ville e palazzi per godere degli strabilianti paesaggi e del clima particolarmente mite anche in inverno.

Il mistero di Segesta Tigulliorum

Sestri Levante fu scelta fin da epoche remote come insediamento umano da parte dei Tigullii, una tribù di Celto-Liguri. L’unica fonte che cita anticamente il toponimo “Segesta Tigulliorum” è Plinio il Vecchio (I sec. d.C.); in seguito nell’ Itinerarium provinciarum Antonimi Augusti e l’Itinerario marittimo di III- IV secolo sono citate Segesta e Tigullia. Ma dov’erano situate? Per conoscere meglio questi aspetti storici, ci rechiamo nel centrale Palazzo Fascie, sede del Museo Archeologico (MUSEL), aperto nel 2013. Occupa il terzo e quarto piano del bellissimo palazzo che fu dimora del cavalier Vincenzo Fascie il quale, prima della morte, lo lasciò in eredità alla città “per il suo benessere e progresso”. All’esterno il palazzo, che affaccia sull’ elegante Corso Colombo,  è inconfondibile per via dell’alta torre merlata che svetta sugli altri edifici. Spicca, tra stemmi e motti, un cartiglio che recita “Conosci Te stesso”. Il Museo Archeologico è museo della città e del territorio ed espone anche reperti che si trovavano al Museo Archeologico di Chiavari. Con quest’ultimo e con il polo archeominerario di Masso (sede di Castiglione Chiavarese) è integrato in una rete espositiva territoriale.

All’ingresso troviamo un’ancora “a ceppo fisso con perno di fissaggio in piombo” recuperata nel 2006 sui fondali al largo di Punta Manara e datata tra il I secolo a.C. e il I sec. d.C. Dalle dimensioni del reperto, si ritiene che fosse in dotazione ad un natante onerario di almeno 20 m di lunghezza, segno che in questo tratto di mare incrociavano imbarcazioni di grandi dimensioni su rotte commerciali. Costituisce, inoltre, una scoperta recente che testimonia l’utilizzo della rada di Sestri L. in età classica. Il motivo per cui la nave perse l’ancora non è chiaro ma gli esperti pensano ad un naufragio.

Si sale e si inizia la visita dal IV piano, con le esposizioni più lontane nel tempo. Ad accoglierci, un tizio barbuto dall’aria dotta che ci parla da uno schermo e si qualifica: è Arturo Issel (1842-1922), scienziato, geologo e paleontologo genovese. Fu lui a scoprire il sito delle Arene Candide, nel finalese, e a lui si devono le precoci intuizioni della presenza di antichissime miniere di rame in Liguria. Nella fattispecie, nel territorio di Libiola (comune di Sestri Levante) e di Monte Loreto (Val Petronio) aveva ascoltato che i minatori ottocenteschi si imbattevano spesso in cunicoli già presenti in cui occasionalmente ritrovavano anche degli arcaici attrezzi da lavoro; emblematica fu la scoperta di un mazzuolo litico nella miniera di Libiola che Issel intuì essere stato usato per battere la testa di un punteruolo conficcato nella roccia. Scendendo egli stesso in miniera, analizzò poi anche altri strumenti che i minatori ritrovavano e annotò tutto, fece descrizioni e disegni in modo da lasciarne puntuale testimonianza. Secondo lui dovevano risalire ai primi tempi dell’era dei metalli, a tempi anteriori a ogni ricordo storico. A quel tempo non tutti i “colleghi” potevano dirsi d’accordo, figuriamoci ma il sagace studioso ha avuto la sua piena rivincita.

Non resta nulla di quei ritrovamenti ad eccezione di un reperto esposto in una delle vetrine del museo. Issel ne diede debita descrizione, sostenendo che fosse il manico ligneo di un’ascia o, meglio, di una zappetta di bronzo, ritrovato in una delle gallerie abbandonate. Diceva pure che doveva essere un ramo di quercia. Nel 1985 sono state condotte analisi al radiocarbonio del “manico di piccone” di Libiola e la datazione fornita è stata collocata tra il 3.490 e il 3.120 a.C. (Età del Rame). Nelle miniere del Monte Loreto le campagne di ricognizione archeologiche e speleologiche hanno evidenziato intensa presenza di carboni che, opportunamente datati, hanno fornito come epoca di riferimento l’età del Rame. Sono stati fortunatamente ritrovati anche numerosi attrezzi come mazzuoli in dolerite, basalto, ferro-gabbro (?). Issel ha quindi preceduto di un secolo, con il solo metodo scientifico osservativo e deduttivo, le scoperte moderne, tracciando la strada per il loro sviluppo.

Nel Museo troviamo una congrua parte multimediale ma anche pannelli classici descrittivi; nelle vetrine reperti risalenti al Paleolitico, al Mesolitico, all’Età dei Metalli fino all’epoca romana e al Medioevo. Questi pezzi, di proprietà statale, sono stati recuperati in scavi ufficiali degli ultimi quarant’anni sia nel territorio del Tigullio che nell’entroterra e, particolarmente affascinante, gli oggetti scoperti tramite l’archeologia subacquea condotta in vari siti costieri e prevalentemente a San Michele di Pagana. Interessante appare il fatto che fino alla fine dell’Età del Bronzo, le culture del Ponente e del Levante ligure sembrano essere state omogenee mentre proprio in quel periodo si differenziarono culturalmente, tant’è che ritroviamo due distinte entità culturali nell’Età del Ferro.

E’ a quel periodo che si data l’importantissima Necropoli di Chiavari, di cui abbiamo parlato in apposita pagina. Alla fine dell’Età del Bronzo si caratterizzano nel Tigullio anche i “castellari”, insediamenti d’altura situati spesso all’incrocio di crinali. Ciò sembra legarsi al processo di organizzazione territoriale legato al controllo delle vie di comunicazione e di crinale, come pure allo sviluppo della pastorizia. Tipici dei castellari erano i muretti a secco che contenevano i terrazzamenti (hanno continuato a caratterizzare il paesaggio ligure fino ai giorni nostri). Nei toponimi odierni si può ritrovare quella remota presenza (esempio Castellaro di Uscio). Fiorenti erano sicuramente gli scambi commerciali con altri popoli della penisola italiana e anche oltre. Ma nemmeno gli esperti sanno dire  con certezza dove si ubicasse Segesta Tigulliorum e Tigullia: alcuni ritengono che fossero due centri distinti (Segesta costiero e di approdo, Tigullia più verso l’interno), altri le considerano invece un centro unico ubicato dove sorse poi la Pieve di S. Stefano al Ponte.

Non dimentichiamo che esiste il Monte Castellano, sopra Sestri, che potrebbe essere stato il punto nevralgico degli antichi Liguri. Le ricerche geologiche hanno anche condotto al riconoscimento del paesaggio che doveva caratterizzare la linea di costa (molto più vicina dell’attuale) e la presenza di lagune paludose. Un marinaio romano avrebbe visto, scrutando il mare, la costa fronteggiata da una penisola e un lungo fiordo. A est vi era una rada che era però una piana alluvionale e se lì vi fossero le testimonianze eventuali di Segesta Tigulliorum, sarebbero difficili da individuare, poste probabilmente sotto l’attuale piano stradale. Ma i pezzi d’ancora confermano che la rada fosse un punto di approdo o stazionamento (oppure di passaggio) di grandi navi da carico dirette nel Tirreno.

I ricercatori ipotizzano fortemente che l’antica Sestri Levante fosse inserita nell’organigramma delle rotte commerciali, forse uno scalo minore del Tigullio. La questione dell’ubicazione di Segesta e Tigullia resta aperta e ad essa si aggiunge quella di Tegulata, località citata nell’itinerario marittimo del III-IV secolo; secondo alcuni, sarebbe da identificarsi con Trigoso presso Lavagna. Soltanto nuove ricerche archeologiche potranno colmare i vuoti ancora esistenti. Tra Genova e Luni (cioè nel levante ligure) in base ai documenti, si è sempre ritenuto che non esistesse – in età romana- una civitas ma piccoli centri (vici), come Recco, Portofino, Zoagli, la stessa Sestri L., Moneglia, tanto per citarne alcune. Questo sulla costa, ma a mezza collina o sui monti potevano persistere comunità autoctone (liguri Tigullii) che vivevano di pastorizia, essenzialmente. Nuove scoperte hanno però ribaltato queste credenze e tra poco lo vedremo.

E’ ipotizzabile che questi insediamenti si situassero lungo le direttrici viarie e che con la romanizzazione fossero divenuti stazioni di sosta (mansiones). Il ritrovamento della Necropoli di Chiavari ha gettato nuova luce su chi fossero quegli antichi Tigullii, pienamente inseriti nelle rotte commerciali dell’Età del Ferro. Chi amministrava il territorio del levante ligure in epoca romana? Per rispondere, il museo propone la revisione di un’iscrizione funeraria scoperta nell’antica città marocchina di Sala Colonna (oggi Chellah) in cui è menzionato Minicio Pulcro che, nel 140 d. C., era residente tra i Tigulli della Liguria (e morì a Chellah). Era della tribù Galeria alla quale erano ascritti i cittadini di Genova; per questo gli studiosi pensano che tutto il territorio del levante appartenesse e fosse amministrato da Genova. Ma non è tutto così semplice, infatti anche i cittadini di Luni (SP) e di Veleia (oggi in provincia di Piacenza) erano ascritti alla tribù Galeria! Le due cittadine confinanti erano infatti grossi centri, importantissimi, e sorge quindi qualche dubbio su chi “comandasse” nel levante ligure…

Il cippo romano del Monte Ramaceto

Un’importante testimonianza della presenza romana è data da un cippo confinario del II sec. d.C. ritrovato casualmente sul Monte Ramaceto nel 2015[1]. La scoperta si deve a Italo Francescini mentre il riconoscimento del valore del pezzo spetta al prof. Giovanni Mennella (Università di Genova). E’ esposto in una mostra permanente al IV piano del Museo, mostra che peraltro è stata inaugurata il 4 ottobre 2017, pochi giorni prima della nostra visita. E’ stato ipotizzato che  il manufatto, che è di arenaria, si trovasse insieme ad altri cippi che delimitavano un vasto latifondo imperiale. Su una faccia il cippo presenta una breve frase CAESARIS N(ostri) (Proprietà del nostro imperatore). Sulla faccia opposta vi sono scolpite le lettere P M G, che non hanno ancora una spiegazione chiara: potrebbero riferirsi a P(ublicum) M(unicipii) G(enuensium) = Proprietà Pubblica del Municipio di Genova, oppure essere le iniziali del nome dell’eventuale proprietario del latifondo[2] confinante con quello imperiale. Il reperto è unico in Italia, nel suo genere, e raro anche tra quelli documentati altrove. La presenza di questo cippo ha rivoluzionato le conoscenze fino a quel momento possedute in merito alla presenza romana in Liguria e in particolare nel Levante ligure. Vediamo perché, anche sulla base di quanto già abbiamo detto: 1) ha consentito di capire che non vi erano soltanto piccole proprietà terriere ma che l’imperatore in persona possedeva un latifondo, che si presume fosse di grandi dimensioni; 2) la zona doveva quindi essere allettante dal punto di vista produttivo. Si ritiene infatti che fosse attiva la produzione di legname e l’allevamento, soprattutto caprino e ovino. Si è aperta dunque una nuova pagina d’indagine, inedita, per la storia, l’economia e l’organizzazione sociale e insediativa della Liguria orientale. Il latifondo imperiale faceva parte del sistema dei “pagi”[3] che si estendeva da Veleia (ed è fondamentale ricordare la Tavola alimentare bronzea detta di Traiano[4], conservata nel Museo Archeologico di Parma) fino in Val d’Aveto, all’Aiona e in prossimità della costa.

  • Sestri Levante nel Medioevo e oltre…Dei successivi secoli conseguenti la caduta di Roma si hanno ancora meno certezze, dal momento che i ritrovamenti archeologici sono molto scarsi e i documenti scritti idem. L’introduzione del Cristianesimo nell’area è attestato da alcune epigrafi (la più antica del V secolo d.C.) e a Sestri Levante abbiamo un unico frammento altomedievale, incassato nella chiesa romanica di San Nicolò dell’Isola, che tra poco vedremo. Dell’organizzazione di eventuali circoscrizioni castrensi bizantine, paventate da alcuni studiosi, non sono state ancora definite con certezza nemmeno le rispettive esistenze; ciò che appare sicuro è che in epoca Carolingia l’intera area passò ai monaci di San Colombano di Bobbio (PC).

E’ solo nel 1145 che sorse il Castello di Sestri Levante sull’Isola, ad opera dei Genovesi, che sancirono il controllo militare e portuale della località. Il terreno apparteneva, a quel tempo, ai monaci di San Fruttuoso di Camogli e su questo terreno esistevano già delle mura antiche che delimitavano uno spazio chiuso. Era stata la regina Adelaide, moglie di Ottone il Grande, a farne dono ai monaci di San Fruttuoso. Da quel momento nacque il castrum Sigestrii, sull’isola, che iniziò ad essere abitato da appartenenti ad un Consorzio feudale formato dalle famiglie signorili dei Nascio, dei Cogorno e dei Vezzano, seguite da altre. In breve Sestri L. diventò una Podesteria e troviamo a capo una famiglia potentissima, i Fieschi, che abbiamo già incontrato parlando di Lavagna. Nel Museo ne è tracciata a grandi linee la storia ed è anche mostrato un interessante censimento, quello del 1467, in cui sono elencate le 286 famiglie che vi risiedevano, con accanto (per alcune) il luogo di provenienza e per altre il mestiere esercitato. Un bello spaccato di vita sestrese!

Il Museo offre informazioni su un’antica istituzione che aveva sede nel distrutto oratorio di Santa Caterina d’Alessandria, gestita dalla Confraternita dei Disciplinati (i quali hanno dovuto trasferirsi nella chiesa di S. Pietro in Vincoli (nel centro storico di Sestri L.). Il loro nome attuale è Confraternita di Santa Caterina. L’esposizione prosegue con lo sviluppo moderno della cittadina in vari settori industriali fino all’epoca contemporanea.

Andiamo a vedere! Dopo questa scorpacciata di storia, è venuta sicuramente la voglia di andare a perlustrare alcuni dei luoghi citati nel museo. La giornata d’ottobre è splendida, soleggiata; il mare è blu cobalto e il paesaggio è di quelli che non si faranno mai più dimenticare. Decidiamo di iniziare dalla Baia del Silenzio, dove diverse persone si stanno abbronzando e facendo il bagno. Assolutamente incantevole, si fa apprezzare ulteriormente se si percorre tutto il semicerchio che la caratterizza e soprattutto se si sale alla Chiesa di S. Maria Immacolata e Convento dei Cappuccini (XVII secolo). Dalla terrazza antistante il Santuario si gode un impareggiabile panorama. L’interno conserva, quale chicca che vogliamo raccontare, il dipinto della Vergine del Rifugio, collocata in posizione elevata e dunque poco visibile (primo altare a sinistra, entrando). Tuttavia i frati, per consentire ai fedeli di godere dell’immagine, ne hanno messo una copia ad “altezza occhi”. Il dipinto originale risale alla metà del 1700 ed è di autore ignoto.

L’altare fu fatto realizzare a proprie spese da un frate missionario (padre Annibale Tavarone), che usava portare con sé l’icona mariana durante i suoi viaggi in India, Africa e America. Ma durante una di queste trasferte si ammalò gravemente e, per farla breve,  arrivò a Genova dopo varie traversie. Posto in isolamento perché ritenuto contagioso, ebbe sempre come consolazione l’icona. Durante la sofferenza fece voto alla Madonna che, se fosse guarito e fosse giunto a Genova sano e salvo, avrebbe incorniciato il dipinto e gli avrebbe reso degno ringraziamento. Effettivamente il frate guarì, giunto a Genova venne curato e qualche tempo dopo fu trasferito nel convento di Sestri Levante, dove fece erigere l’altare e incorniciare l’icona come aveva promesso. Nel 2009 i frati minori Cappuccini l’hanno restaurato. La Madonna ha il manto blu (colore della trascendenza), il Bambino ha la veste rossa, come il trono (allusione al colore della Passione di Cristo), Gesù tiene in mano una cordicella legata ad un uccellino, forse un cardellino (anima dell’Uomo che alla morte vola via, lo Spirito). Il dipinto è noto anche come “Madonna del Cardellino”.

Ridiscesi nel borgo pwechè dobbiamo risalire sul promontorio di fronte. Poco oltre la Chiesa Parrocchiale di Santa Maria di Nazareth, a sinistra imbocchiamo Via Penisola di Levante. La nostra meta è la chiesa romanica di San Nicolò dell’Isola. L’occasione consente di avere una meravigliosa visuale del mare e della baia da una prospettiva sopraelevata. A metà percorso incontriamo i suggestvi ruderi dell’Oratorio di S. Caterina d’Alessandria, purtroppo recintati in proprietà privata e non accessibili (sono però visibili dalla cancellata). E’ ciò che resta del cinquecentesco edificio di culto, distrutto dai bombardamenti del 1944. Si riescono a vedere, oltre a brandelli di muri, il pavimento a piastrelle bianche e nere, qualche residuo dipinto murale, mentre la una statua della santa titolare è stata collocata dai membri della Confraternita come memoria di ciò che il luogo ha rappresentato per la città.

L’istituzione è stata per secoli dedita al suffragio dei morti, alla  cura delle anime e soprattutto dei malati. Erano i membri della Confraternita, fondata nel XIII secolo, ad occuparsi anche dell’ospedale (fino al 1806). Il culto di Santa Caterina d’Alessandria venne portato a Sestri Levante dai Crociati. Gli arredi più importanti erano stati portati in salvo prima del bombardamento e sono conservati nell’attuale sede della Confraternita, nella chiesa di S. Pietro in Vincoli. La cassa professionale di Anton Maria Maragliano (1735) e il crocifisso di G. B.Bissone vengono tutt’oggi portati in processione dai confratelli per le vie della città il 25 Novembre, festività della santa.

Risaliamo e, a breve distanza, troviamo la bellissima chiesa romanica di San Nicolò dell’Isola, così chiamata perché un tempo il promontorio su cui si trova era una sorta di “Isola”. Ci accorgiamo subito che la zona è tutta fortificata, infatti ci troviamo nel punto ove sorse, nel 1145, il castrum. I Genovesi vi avevano eretto un sistema di fortificazioni e una chiesa a tre navate. Il campanile è originale e fu portato a termine nel 1151, con pianta quadrangolare e copertura conica. L’intitolazione a San Nicolò (o San Nicola) potrebbe deporre per la presenza di Cavalieri Crociati (Templari?) perché –oltre ad essere un taumaturgo- egli era anche protettore dei marinai e delle navi. Questa chiesa è proprio a picco sulla baia. Alcuni studiosi ritengono che San Nicola conciliasse benissimo le esigenze religiose-militari con quelle marinaresche ed era tra i santi più amati dai monaci-cavalieri.

Si hanno notizie di un assedio alla cittadella fortificata nel 1432 ad opera dei Veneziani, in seguito al quale subì notevoli danni; venne ricostruita dai Genovesi che affidarono il progetto a Leone da Bissone (Comacino). Spenta la  funzione militare, nel 1810 il promontorio venne trasformato in cimitero. Nel 1925 l’industriale Riccardo Gualino acquistò il terreno e fece erigere tre residenze che nel 1950 sono state convertite nel Grand Hotel dei Castelli. Una delle torri è originale. Non è certo se e cosa vi fosse prima della chiesa di San Nicolò: forse addirittura un culto pagano, forse un edificio cristiano gestito dai monaci di San Colombano? Fu parrocchia per diversi secoli; nel 1519 divenne succursale della Diocesi di Bugnato e nel XVII secolo smise di essere parrocchiale perché, più a valle, stava erigendosi la nuova (e attuale) chiesa parrocchiale, quella di S. Maria di Nazareth. L’abbiamo potuta ammirare soltanto all’esterno perché dentro era chiusa. Sulla facciata laterale si trova un’antichissima epigrafe poco leggibile. Sopra il portalino laterale è inserito il frammento alto-medievale di cui si è accennato prima. Arrivando, ci si presenta la parte absidale, bellissima. Una finestrella a croce campeggia sul paramento murario. La facciata è del XV secolo, presenta un portale strombato (a pseudo-protiro) e una trifora molto bella. Nella chiesa si conservava, almeno dal XIV secolo, un Santo Cristo che si può ammirare attualmente nella nuova parrocchiale.

La trifora in facciata e, più in basso, il motivo a croce nella lunetta

Il frammento scolpito con motivi simbolici inserito nella lunetta del portalino laterale. Lo si ritiene di epoca alto-medievale

Dopo aver sostato a lungo in questo luogo interessante e carico di storia, ripercorriamo la discesa, diamo uno sguardo nuovamente ai ruderi di S. Caterina d'Alessandria e, giunti al piano, andiamo a visitare la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Nazareth, di cui citeremo soltanto il crocifisso miracoloso, conservato nella cappella sinistra rispetto all'altare (per chi guarda) e patrono di Sestri Levante. Da dove provenga non si sa, forse dal mare dopo qualche battaglia...Era conservato nella precedente parrocchiale, San Niccolò dell'Isola che abbiamo visto poc'anzi. Si ritiene opera dell’ultima fase della scultura romanico lombarda: il capo reclinato sulla spalla destra, il busto contratto, le gambe piegate, il piede destro fissato sul sinistro e soprattutto il commosso atteggiamento del volto. Alcuni ritengono trattarsi di uno di quei crocifissi che aprivano le processioni penitenziali in tempo di calamità, altri dicono fosse issato a prora di qualche barca, segno di protezione divina. La tradizione lo vuole portato dal mare dalle parti di Levante con alcuni relitti, dopo una qualche battaglia navale. Sappiamo che dal 1336 operò, secondo gli abitanti dell' Isola, dei miracoli, primo tra tutti metere in fuga i monegaschi che l'avevano assediata con l'intenzione di impossesarsene. Anche in occasione di altri assedi, il Santo Cristo avrebbe messo in fuga i nemici.

Veniva portato in processione dalla Confraternita dei Disciplinati di Santa Caterina e nel 1620 venne portato nella nuova chiesa parrocchiale. Qui, però, nel 1690 venne rimosso e riposto in sacrestia, senza che le cronache abbiano tramandato il motivo. Cos'era accaduto? Il manufatto si ammalorò (aveva perso anche le braccia) a tal punto che qualche tempo dopo il sacrestano Leonardo Bolasco con un giovane chierico, Cristofero Rovasca, decise di spaccarlo e darlo alle fiamme. Ma come si fece per fendere il primo colpo, il Cristo avrebbe aperto gli occhi come fosse diventato vivo! Sbigottiti, con il sacrestano svenuto, i due uomini fecero fatica a riprendersi ma appena poterono andarono ad avvisare il vescovo di Brugnato. La notizia in breve si sparse ovunque e da quel momento la venerazione al Santo Cristo non conobbe fine. Venne realizzata un'apposita cappella e sono numerosi i miracoli che gli vengono attribuiti, dal sedare una tempesta alla protezione contro un'epidemia di colera, e soprattutto nei confronti della siccità. Nel 1962 la chiesa di S. Maria di Nazareth venne elevata a Basilica Minore.

E adesso ci tuffiamo nel centro storico, tra carugi, botteghe, fontane, palazzi e ville delle famiglie che abbiamo trovato citati nel museo. Per chi crede che Sestri sia soltanto una località balneare, non è davvero poco!

 


[1] La scoperta dovrebbe risalire, in realtà, al 1988 ma se ne erano perse le tracce. Il Monte Ramacelo si trova nel comune di Fontanabuona

[2] Sembra che un esame dei catasti abbia fornito il nome che, per via ereditaria, sarebbe giunto alla famiglia dei marchesi Paganini Marana

[3] Circoscrizioni territoriali di origine pre-romana, accentrata su luoghi di culto locali ma non godeva di un riconoscimento ufficiale nell’ordinamento romano

[4] Tabula Alimentaria Traianea, contenente le disposizioni del prestito fondiario ipotecario voluto da Nerva e Traiano, i cui interessi erano devoluti al sostentamento dei fanciulli indigenti della città di Veleia. Il prestito era concesso direttamente dal patrimonio personale dell’imperatore