I misteri della cripta di Cerete Basso (BG)

                                                                       (Marisa Uberti)

 

                                      

 

  • Premessa

 

Molto spesso i misteri più interessanti si trovano a due passi da noi, ma non lo sappiamo. E’ il caso che andremo a raccontare, segnalatoci nel febbraio 2015 dal ricercatore Nello Camozzi, che a Cerete ha tratto le proprie origini. Trasferitosi nel comasco, ha sempre mantenuto con il suo paese un legame inestirpabile e a lui si deve il grosso studio fino ad oggi svolto sui misteri della cripta della Chiesa Prepositurale di San Vincenzo.

 

              

                                                La Chiesa di S. Vincenzo Martire

 

Dal momento in cui ne siamo venuti a conoscenza, abbiamo deciso di recarci personalmente sul posto, avendo come guida proprio il signor Camozzi e più di così non si poteva sperare. In una splendida mattinata soleggiata, all’inizio del mese di Marzo, ci siamo messi in viaggio per la Val Borlezza, una quarantina di chilometri a Nord-Est del capoluogo orobico. Situata trasversalmente tra quattro valli (Seriana, Scalve, Camonica e Cavallina), immersa in un paesaggio di suggestiva bellezza, la Valle trae il nome dal fiume Borlezza che la attraversa. Cerete si colloca nella parte mediana di questa fertile Valle, per il 97% sulle pendici montuose e per il residuo su fondo pianeggiante.

 

                                

 

E’ un paese ricco di acque e per questo vi erano molti mulini, di cui due sopravvivono ancora oggi, insieme alle tradizioni locali che allietano i villeggianti estivi. D’estate arrivano numerosi per godersi la salubrità dei monti o effettuare le numerose escursioni offerte dal territorio. Entrando in paese si notano, in corrispondenza dei punti più importanti, degli utili pannelli turistico-didattico-multidisciplinari, che sono stati curati da Nello Camozzi. Essi fanno parte dei 39 poster autonomi (ma tra loro integrati), costituenti ciascuno una guida esauriente per singole piacevoli escursioni alla scoperta del territorio, una vera e propria “caccia ai tesori” naturalistico/culturali che, dall’alta Val Borlezza, arriva a toccare i sei Comuni aderenti al progetto Presolana Grand Tour, tra cui Cerete. 

 

                                     

Uno dei poster che si possono trovare a Cerete Basso, comune aderente al circuito culturale Presolana Gran Tour

 

Il paese è diviso in tre frazioni: Cerete Alto, Cerete Basso e Novezio. I ritrovamenti archeologici raccontano di un' arcaica presenza umana e, venendo a tempi più recenti, è documentata la prima citazione della località nell’ 883, quando Carlo III il Grosso (ultimo imperatore carolingio e a quel tempo anche re d’Italia), fece dono del piccolo monastero di San Michele Arcangelo al vescovo di Bergamo (che doveva essere, secondo la cronotassi ufficiale, il milanese Garibaldo). Nell’atto di donazione è esplicitato che il luogo era detto “Cerretum”, toponimo che viene collegato alla presenza di una tipica vegetazione arborea chiamata “cerro”, simile al rovere e presente un tempo in abbondanza nella zona. A noi ricorda molto Cerere, la divinità femminile legata alla terra e alla fecondità, nume tutelare dei raccolti ma legata anche al mondo infero.

 

                 

                           

Il fulcro del paese è la piazza antistante la Chiesa di S. Vincenzo, intitolata a papa Giovanni XXIII. L’edificio che si vede a destra, stando sul sagrato della chiesa, era la residenza episcopale intorno all’anno Mille, perciò Cerete doveva godere di una notevole importanza [1].

 

               

               

                             Portale d'ingresso della Chiesa di S. Vincenzo Martire a Cerete Basso

 

L’attuale chiesa prepositurale è il frutto di diversi interventi architettonici e stilistici; la sua consacrazione risale al 1444 e alla fine del secolo successivo venne allungata verso occidente. Si ritiene che l'edificio nacque come parrocchiale dell'intera comunità di Cerete, rimanendo tale fino al 1543; Carlo Borromeo effettuò una visita pastorale nel 1575, descrivendola ad una sola navata con cinque altari e con soffitto in legno. Nel 1677 vennero eseguite le decorazioni a stucco, poi rifatte nel 1747, anno in cui l'edificio venne radicalmente ricostruito. Nel 1697 arrivarono in paese le spoglie di san Vincenzo, martire romano cui la chiesa è dedicata, che furono ospitate nella parrocchiale. La chiesa conserva numerose opere d’arte, volute e donate da ricche famiglie di origine ceretese, a partire  dalla pala Ferri di Gianantonio Guardi, dieci importanti dipinti di Antonio Cifrondi, una Estasi di Santa Teresa d'Avila di Paolo Pagani. Notevole il Cristo Grande della bottega di Andrea Fantoni (ulteriori informazioni: SIRBeC scheda ARL - BG120-00073).

Le origini della chiesa, tuttavia, sono ignote; si ritiene che esistesse già nel Mille, quando doveva essere annessa al palazzo del vescovo. L'attuale suolo della cripta potrebbe essere riconosciuto come il pavimento di questo edificio più antico.

 

                 

            Lateralmente al presbiterio sopraelevato, vi sono le due porte che conducono alla cripta

 

  • La cripta dei misteri

Due rampe di scale che si aprono dietro altrettante porte situate lateralmente al presbiterio, conducono alla cripta. Sopra entrambe le architravi, Nello Camozzi ci fa notare quattro lettere, non scritte consecutivamente, ma due all’inizio e due alla fine: .S.P.     Q.R. 

 

                

 

E’ fin troppo facile ricordare l’acronimo di epoca romana (Senatus Popolusque Romanus, il Senato e il Popolo Romano) che qui, evidentemente, appare fuori luogo. Che significato hanno, quindi? Secondo un’ipotesi di Nello Camozzi, le prime si potrebbero riferire alle iniziali del nome del protagonista di questa storia, Stefano Perinei (S.P.), e le seconde “Qui Riposa”, ma in genere si usava il latino, e tale frase verrebbe scritta con le iniziali H.R. (Hic requiescit). Comunque il Perinei riposa veramente nella cripta, da quattro secoli, in un sarcofago posto in un vano, a occidente, che era stato murato e condannato all’oblio, dimenticato da tutti. Fu solo all’inizio degli anni ottanta del XX secolo che venne fatta un’incredibile scoperta e, con essa, iniziarono ad essere raccolti i pezzi di un oscuro puzzle.

Tutto era iniziato casualmente, quando il sociologo Camillo Pezzoli, studioso di storia locale, essendo in visita alla chiesa parrocchiale in compagnia del parroco, avvertì una certa flessione sotto i piedi, in un punto della navata, come se risuonasse un locale vuoto, al di sotto. Fino ad allora l’esistenza della cripta era nota, ma veniva usata come un ripostiglio, ingombra di materiale vario, mai indagata dal punto di vista archeologico. Quando il Pezzoli scese insieme al parroco, si avvide subito dell’arco murato, a sinistra, pensando che dietro dovesse celarsi un ulteriore locale, quello che risuonava vuoto sotto il pavimento della chiesa superiore. A livello popolare, le donne ceretesi tramandavano oralmente che lì dovevano esservi “i morti”, ma nessuna importanza era data a quelle dicerie, forse perché il luogo faceva paura, ammantato da una sorta di damnatio memoriae. Poco tempo dopo venne creata una piccola breccia nel muro e quale fu la meraviglia? Per il piccolo paese la scoperta fu paragonabile a quella, su scala mondiale, della famosa tomba di Tuthankamon nella Valle dei Re in Egitto, ad opera di Howard Carter!

 

            

Foto d'archivio che mostra l'arco della Cappellina funeraria ancora murato e il foro eseguito per sondare cosa vi fosse all'interno

 

Il sig. Sergio Brasi fu il primo ad entrare nel sepolcreto, nel 1982, seguito poi da alcuni studiosi. Un odore di muffa si sprigionò immediatamente, mentre agli occhi si mostrò, impolverato dal tempo, uno scheletro seduto su uno scranno, che aveva perso il teschio, il quale giaceva a terra, accanto ad un cappello a tesa larga, caratteristico dei prelati. Una bara coperta di polvere stava ai piedi della carcassa umana; si scoprì contenere altri due scheletri, e qualche brandello di abito talare con bottoncini rossi. Completavano la macabra scoperta i resti di ulteriori due cadaveri mummificati, una scarpa con una fibbia di metallo, delle calze ancora incollate alle tibie scheletriche...Tutti restarono ammutoliti, guardandosi increduli e impauriti. Dopo le indagini della Soprintendenza e degli organi preposti, si appurò che quei cinque corpi appartenevano verosimilmente ad altrettanti parroci di S. Vincenzo, che erano stati tumulati lì come spesso usava fare, all’interno delle chiese, almeno fino all’epoca Napoleonica. Il cimitero nuovo venne  infatti realizzato solo nel 1810.

Sembrava tutto finito ma nessuno aveva pensato di cercare sotto lo strato di sabbia fine (cosiddetta “sabbia del Po”) che costituiva la base su cui poggiavano bara e scheletri...

Il passato, tuttavia, spesso si fa strada con determinazione e fu così che sette anni dopo, nel 1989, proprio sotto quella sabbia spuntò qualcosa: un sarcofago di pietra grigia, non locale. Il vano dei misteri non aveva ancora restituito tutto il suo contenuto e mancava proprio la componente più importante, anche se fino ad allora non lo si sapeva. Si trattava dei cadaveri di due uomini, inversamente deposti (la testa di uno stava ai piedi dell’altro); uno appariva imbalsamato e il cranio dell’altro era sfondato. Chi erano mai quei due individui? Come mai si trovavano entrambi nello stesso sarcofago? Perché erano stati sepolti sotto uno strato di sabbia, sopra la quale quegli altri cinque preti erano stati inumati? E come mai l’antro era stato sigillato e dimenticato?

 

                              

             L'arco, liberato dalla muratura che lo celava e restaurato, come lo si può vedere oggi

 

A queste domande cercò da subito di trovare una risposta lo studioso locale Nello Camozzi, coadiuvato dal parroco della Prepositurale, svolgendo una ricerca mirata che li portò a scoprire l’identità dei due personaggi e una storia sconvolgente, nonché un fenomeno di sincretismo religioso. Ma andiamo per gradi; mentre scendiamo le scale accompagnati dal signor Nello, ci ritroviamo proprio davanti al sarcofago, ancora contenente i due corpi.

Il cadavere imbalsamato apparteneva a don Stefano Perinei, parroco di Cerete Basso dal 1575 al 1614 e l’altro a suo nipote, Giuseppe Vinetti, sacerdote a sua volta e rettore della medesima parrocchia, dopo che lo zio aveva deciso di abdicare in suo favore. Don Perinei lasciò, forse per limiti d’età, la sua carica di prevosto, ma rimanendo con il nipote fino alla morte, avvenuta in un anno non specificato ma compresa tra il 1618 e il 1622. Nel 1618 don Stefano era ancora vivo e in quell’anno il Vinetti trasformò in cripta (destinata allo zio) il locale ipogeo sotto il presbiterio. A questo punto dobbiamo anche chiederci: che cos’era quel locale, prima della trasformazione? Non si sa con precisione, ma nella parete orientale un tempo c'era una porta (oggi tamponata e trasformata in una nicchia d’altare) che anticamente collegava la cripta alla casa parrocchiale e in seguito (per variazioni edilizie), al presbiterio della chiesa superiore, ma è importante sottolineare che soltanto don Perinei usufruiva di questo passaggio. Per andare dove? Qui, prima che venisse creata la sua dimora eterna, cosa c'era?

 

                       

L'altare e, posteriormente, la nicchia. Al tempo di don Perinei era un passaggio che usava lui solo. Appoggiando la bussola sull’altare, ha rilevato un azimut di orientazione di 60° (ma bisogna tenere conto di eventuali perturbazioni magnetiche dovute alla presenza di ferro, cavi elettrici, ecc.).

 

Inoltre da un preciso punto del pavimento, ancora individuabile, don Perinei scendeva- quand’era in vita- per raggiungere uno o più locali non identificati, certamente al riparo da occhi indiscreti (per non dire di nascosto). Le indagini archeologiche hanno evidenziato un vano, sotto il pavimento, che è forse da mettere in relazione con un passaggio sotterraneo di raccordo tra la cripta della chiesa e l’antico palazzo vescovile. Sono documentati cunicoli ipogei nell’area del centro storico. Sembra quasi che, realizzando la cripta per la sua sepoltura, don Stefano Perinei abbia voluto sigillare quel segreto (pensando che nessun estraneo sarebbe sceso a cercare recessi celati sotto il pavimento). Un segreto di cui non si conosce nulla e che (in via ipotetica)  poteva ancora essere custodito sia da suo nipote, don Vinetti, che da altre persone che godevano della loro fiducia.


 

 

                            Cripta. Gli "ingressi" ai cunicoli che don Perinei conosceva e usava

 

Il progetto della trasformazione della cripta sembra essere partito da entrambi i parroci, zio e nipote. Nel 1622, quando don Stefano morì, il locale venne inaugurato alla presenza dei fedeli che a quanto pare ne restarono sbigottiti. Al centro della volta c’era Gesù attorniato dalla Madonna e dai Santi, ma vi erano anche divinità planetarie che il cristianesimo considerava retaggio pagano, quindi eretiche! Non dimentichiamo che si era in pieno periodo di Controriforma[2]. Come era venuta un’idea simile al loro parroco? Forse anche da vivo don Perinei aveva mostrato un tipo di attitudine filosofica ma quella rappresentazione andava oltre le loro capacità di comprensione (a quel tempo la maggioranza della popolazione era analfabeta). Quando poi, nel 1634, il vescovo di Bergamo Luigi Grimani visitò Cerete e la chiesa di San Vincenzo, non mancò di seguire i suggerimenti dei ceretesi di dare uno sguardo alla cripta “pagana”. Il prelato si trovò a disapprovare totalmente la presenza delle formelle incriminate: che ci facevano Luna, Sole, Venere, Marte, Giove, Saturno, Mercurio sul soffitto della cripta? Quel linguaggio simbolico universale che parlava del viaggio dell’anima di don Stefano verso la salvezza, ma attraverso un corteo trionfale di divinità planetarie che non comparivano nei vangeli, non gli piacque. Fu considerato eretico e il Grimani ne ordinò l’immediata ripulitura: le formelle dovevano essere tolte e non solo, anche il sarcofago di don Perinei doveva essere seppellito, fatto sparire dalla vista.

  • L'omicidio del parroco

Don Vinetti, tuttavia, non eseguì la disposizione episcopale e continuò a mantenerli in essere. Questo gli sarebbe costato caro; fu forse proprio per tale motivo che una sera venne aggredito e assassinato da alcuni individui che, nonostante un’indagine disposta dallo stesso vescovo e dalla Serenissima[3], non vennero mai allo scoperto. Il corpo di don Vinetti venne collocato nello stesso sarcofago dello zio, testa contro piedi. Il busto di don Perinei, posto in una nicchia sopra la sua sepoltura, venne decapitato della testa e delle mani.

 


Il busto di don Perinei, acefalo e senza le mani . A destra, si noti il cruioso dettaglio della stola sacerdotale che esce dalla nicchia e si appoggia al parapetto

 

Le formelle in odore di eresia vennero staccate dopo la morte di don Vinetti, forse fatte a pezzi e gettate da qualche parte (magari si trovano ancora in qualche anfratto ignoto della cripta?). Al loro posto venne data una mano di calce. In seguito vennero tumulati nella stessa cappellina funeraria anche altri cinque parroci che si erano avvicendati alla guida della parrocchia di Cerete Basso (quelli che furono trovati nel 1982, sopra una decina di centimetri di sabbia fine). Il piccolo ambiente, murato in epoca imprecisata, cadde nel dimenticatoio; la cripta venne usata sostanzialmente come una sorta di ripostiglio.

 

           

Scorcio della cripta, con la scala nord-ovest  (a terra è allestito un presepe temporaneo)

 

 

  • La cripta e il suo committente

Superata la porta destra al lato del presbiterio della chiesa superiore, si accede ad un piccolo locale, l’anti-cripta, dove don Stefano Perinei confessava. Si vede ancora la nicchia affrescata in cui sedeva; sul voltino è dipinta una grande conchiglia, alla cui base si trova una scritta:

                                           HIC PRO VIRIS CLAVIUM POT(v)AS EXERCETUR

 

                

Al di sotto, sullo schienale (che è il muro), sono dipinte delle chiavi incrociate e appese ad un chiodo. Le chiavi della Conoscenza? Sul resto delle pareti si notano frammenti di affreschi, su più strati, segno che alcuni sono più antichi di altri. Sul soffitto, invece, è ben conservato un affresco impostato su un rettangolo centrale da cui dipartono quattro diagonali per ciascun vertice. Al centro c’è un ovale contornato di raggi e fiamme, in cui è inscritto il trigramma cristico IHS (Iesus Hominum Salvator), simbolo gesuitico. Esternamente, motivi floreali e quattro teste angeliche, tutte con fisionomia diversa (sono personaggi adulti, forse ritratti di personaggi realmente esistenti, al tempo?).

 

 

Un cancello in ferro battuto separa l’anti-cripta dalle scale che immettono nella cripta vera e propria. Nello Camozzi, che ci accompagna, lascia volutamente al buio l’ambiente, per qualche istante. Ci racconta (e ci mostra dal pc) come dovesse presentarsi in origine l’ambiente, al pari di un cielo stellato. Gli occhi dei volti stuccati, infatti, erano provvisti di sferette perlate che al buio rilucevano d’oro, così come i numerosi segmenti oggi dipinti in rosso. Quale meraviglia doveva prospettarsi, a coloro che scendevano quaggiù!

Attualmente vi filtra una fioca luce dalle due aperture delle parete ovest, attraverso le quali si può vedere la navata della chiesa sopra di noi, mentre pochissima luce entra dalla finestrella a nord. 

 

                

          La cripta immersa nella semi-oscurità (solo le luci della Cappellina funeraria sono accese)

 

Accese le luci, possiamo meglio prendere visione dell’insieme. La Cripta è un ambiente quadrangolare provvisto di due scale sul lato ovest, che provengono dalla chiesa superiore. Tra di esse si apre la cappellina funeraria in cui si trova il sarcofago contenente i corpi dei due rettori. Qui la bussola ha rilevato un azimut di orientazione di 270°. Sul soffitto di questo piccolo vano si trova un foro, ben sagomato, che doveva essere presente nel progetto originario e dal quale, virtualmente, don Perinei poteva vedere ancora la sua chiesa, trovandosi la testa in corrispondenza del foro stesso.

 

               

 

Al di sopra della cappellina, in una nicchia, è situato il busto del prete, privo della testa e delle mani, che dovevano essere congiunte. Ai lati della statua, come appesi lateralmente, si notano due cappelli che sicuramente si rifanno alle cariche rivestite dal personaggio. Esternamente alla nicchia ospitante il busto, in origine forse vi erano delle iscrizioni leggibili (a destra e a sinistra); oggi purtroppo non lo sono più, eccetto una data in caratteri romani (1622). A questo punto vanno spese due parole (perché di più non se ne conoscono) sulla figura di questo misterioso don Stefano Perinei. Si sa che egli era nativo di Lovere, incantevole località lacustre in provincia di Bergamo ma dai tempi antichi congiunta alla Valcamonica. Era un notaio e protonario (o protonotaio) apostolico, una carica particolarmente interessante e rilevante. “Il protonotaio o protonotario apostolico è un particolare prelato della curia romana, titolare di una carica onorifica papale e di altri particolari diritti onorifici. Nel corso dei secoli sono stati numerosi i personaggi che hanno occupato questa carica di prestigio, considerata una via per il cardinalato” (wikipedia). Una figura dunque tutt’altro che minore, nella piccola comunità montana di Cerete del XVI-XVII secolo. Un uomo colto, in amicizia con Decio Celeri (Lovere, 1550 – Romano Lombardo, 1626), di cui leggiamo la caratura culturale: “Appartenente ad una influente famiglia loverese, frequentò nel paese natale la pubblica scuola di grammatica dell’umanista esmatese Maffeo Marchesi, il quale nelle discipline letterarie e scientifiche lo formò tanto da consentirgli di seguire con molto profitto le scuole di medicina e di filosofia di Padova e di Bologna. Ottenuta la laurea in medicina, il Celeri prese la via della Germania e fu medico di corte a Vienna e presso i principi della Baviera e della Polonia. Ammirato e conteso per la sua scienza e per le guarigioni operate, fu gratificato con onori e ricchezze. Ritornato in patria, si stabilì a Bergamo, dove trascorse il resto della sua vita dedicandosi ai suoi studi prediletti. Padre Donato Calvi nella “Scena letteraria” scrisse che “ogni materia era al saper del Celeri agevolissima, fosse pur di rettorica, di poesia, di politica, d’istoria, d’astrologia, di geometria, di aritmetica, di cosmografia, di legge ancora civile e canonica, di teologia e sacra scrittura, niuna alla cognizione di questo soggetto i suoi segreti celava”. Impersonò quasi l’ideale pansofistico dell’umanesimo e scrisse vari trattati, fra i quali si ricordano una “Vita di Plutarco Cheroneo”, “Della retta educazione dei figli”, “L’Heroe” e “De affectibus animi”. Lasciò l’abbozzo di una “Cronologia di Lovere[4]. Ci viene da dire: caspita! Purtroppo non abbiamo trovato altrettante notizie su don Stefano Perinei, ma chissà che prima o poi emergano degli scritti che produsse, o qualche documento che ci possa consentire di conoscerlo meglio. Possiamo solo immaginare come l’amicizia con il Celéri sia maturata in un ambiente comune, forse proprio a Lovere, dove entrambi trassero i natali. Un rapporto continuato nel tempo, nonostante le strade diverse intraprese, eppure la stessa Bergamo potrebbe averli riavvicinati. Infatti il Celéri trascorse l’ultima parte della propria vita proprio nel capoluogo orobico, “dedicandosi ai suoi studi prediletti”, ed è possibile che lui e don Stefano si incontrassero regolarmente, almeno fino alla morte del secondo, avvenuta alcuni anni prima di quella di Decio. C’era forse una “conventicola” elitaria, a Cerete? Non lo sappiamo ma certamente la cripta della chiesa di S. Vincenzo trasmette l’idea che chi l’ha progettata non fosse digiuno di un sapere che va sotto il nome di Tradizione e che comprendeva anche l’Alchimia. Circolano poi strane voci sull’energia che promana da questo luogo, legata alle vicende che abbiamo già raccontato. Don Perinei a nostro avviso era un uomo “potente”, nel senso che deteneva le chiavi di un sapere sopra la media e probabilmente le sapeva usare secondo tempi e modi. E potente è anche il luogo che scelse come sua dimora eterna, sorta forse su un punto che in epoche remote era già considerato sacro (come un santuario pagano, un mitreo, di cui però non si hanno evidenze archeologiche e/o documentali.

 

                 

 

Il sarcofago è illuminato perfettamente; pensare che dentro ci siano tuttora dei cadaveri ci induce al rispetto, ma ne nutriamo per tutto l’ambiente della cripta, relativamente piccolo. Essa consta di tre pareti (nord, est e sud, perché la zona ovest l’abbiamo appena descritta ed è quella occupata dalla cappellina funeraria e dalle due scalinate che portano alla chiesa superiore); quella est è interrotta dall'apertura (oggi tamponata) che usava solo don Perinei, di cui si è già detto poc'anzi. Sulle pareti si possono leggere due registri: in quello inferiore si susseguono i versi delle Otto Beatitudini, dipinti ad affresco e oggi quasi tutti poco leggibili. Nel registro superiore si trovano le rappresentazioni di personaggi religiosi, ben conservati, come vedremo meglio tra poco. Il  soffitto è voltato, con costoloni geometrici che ripartiscono equamente gli spazi, tutti originariamente stuccati. Volti angelici ammiccanti, motivi floreali, teste leonine, elementi piramidali con la punta rivolta il basso, sono solo alcune delle decorazioni che la cospargono.  Praticamente c’è ancora tutto quello che aveva commissionato don Perinei, a parte le sette formelle in odore di eresia, al posto delle quali apparentemente non c’è nulla. Ma non è così.

 

 

                                 Motivi dimbolico-decorativi della volta

 

Solo attraverso la paziente analisi di Nello Camozzi è stato possibile riconoscere i temi originari delle sette formelle della volta. Perché furono quelle ad aver provocato una serie di conseguenze e  la scandalizzata reazione del vescovo. Come mai gli fecero tanta paura? Come mai furono considerate meritevoli di ablazione? Oggi possiamo rispondere, grazie al lavoro del Camozzi che, nel gennaio del 2001, tornò nella cripta munito di quattro lampade alogene da 800W e scattò fotografie a luce radente a tutti gli stucchi. Mentre guardiamo insieme a lui il soffitto della cripta, cominciamo a capire. Tracce dei disegni preparatori (sinopie) si sono conservate, più o meno chiaramente, negli spazi che contenevano le sette formelle.  Un prezioso aiuto è pervenuto a Nello dalla presenza di un nome, JUPITER, su quella che ospitava Giove, riconoscibile anche per la saetta o fulmine che tiene in una mano. Tramite l’elaborazione grafica computerizzata, Camozzi ricavò il rilievo del profilo, e in seguito il suo riempimento. Questa operazione gli consentì di riconoscere, oltre a Giove, la Luna, il Sole, Marte, Saturno, Venere e Mercurio. Al di sotto delle formelle sono ben conservati gli stucchi raffiguranti alcuni santi cristiani, probabilmente cari al committente.


                 

Santi e dei: sotto, una santa  e  un santo cristiani sono sovrastati, rispettivamente, da Venere e Mercurio (poco leggibili). Teste leonine sulle nervature

 

Nel centro del soffitto vi è una grande formella in cui troneggia Cristo in gloria, circondato dalla Madonna e da una teoria di apostoli e santi. Il suo capo ha una doppia nimbatura: quella classica (ma senza croce) e quella costituita da una corona di raggi che paiono fiamme, alla foggia delle divinità solari pagane. La mano destra è in atteggiamento benedicente mentre la sinistra è mancante. La formella verso ovest contiene Dio Padre, preceduto da una grande colomba dello Spirito Santo, acefala. Sulle pareti si susseguivano i versi delle Otto Beatitudini, di cui –come abbiamo già accennato - restano scarsissime tracce, ma sufficienti per permettere al signor Nello di individuarle. Rimandando il lettore all’analisi completa da lui fatta in questi anni, cerchiamo di sintetizzare il contenuto e il significato della cripta voluta da don Perinei.

 

Dettaglio di Cristo in Gloria, con il capo aureolato e con una corona di raggi-fiamme; a destra Dio Padre (notare gli occhi rivolti verso il basso)

                          

 

  • Il viaggio dell’anima su tre livelli

Ci troviamo dunque oggi a poter “seguire” l’intenzione progettuale originaria di don Perinei (coadiuvato probabilmente dal nipote, don Vinetti), il quale immaginò il viaggio della propria anima dopo la morte fisica. Un viaggio che, secondo l’ipotesi ricostruttiva dello studioso Camozzi, si dispiegava su tre livelli salvifici:

a) umano, tramite le azioni compiute in vita adempiendo alle Beatitudini[5], che sono le seguenti:

1.       Beati i poveri di spirito, perché di questi è il Regno dei Cieli.

2.       Beati i mansueti, perché questi possederanno la terra.

3.       Beati quelli che piangono, perché saranno consolati.

4.       Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

5.       Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

6.       Beati i mondi di cuore, perché vedranno Dio.

7.       Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.

8.     Beati quelli che soffrono persecuzioni per amor della giustizia, perché di essi è il regno de' cieli.

 

             

                          La settima Beatitudine, di cui alcune parole sono ancora leggibili

 

Seguendo il loro ordine, nella cripta il percorso inizia sulla parete est, dove c’è la prima delle Beatitudini, sotto la scultura di San Maurizio; prosegue su quella  nord (con la seconda, terza e quarta Beatitudine),  quindi (saltando la parte ovest impegnata dalle scale e dalla cappellina funeraria) a sud  (con la quinta, sesta e settima Beatitudine), e infine tornando alla parete est, sotto la scultura di Sant’Alessandro (patrono di Bergamo), l’ottava Beatitudine chiude il percorso. Inizio e fine erano quindi collocate proprio a ridosso del passaggio che solo don Perinei usava e costituiva l’ingresso alla sua futura tomba. Passaggio che poi, come già ricordato, fu chiuso e ora al suo posto c’è una nicchia per l’altare. I due santi (s. Maurizio e S. Alessandro), a cavallo e con i loro vessilli, sembrano messi a guardia del sepolcro, i Guardiani della  Soglia.

 

         

         

 

c) pagano o filosofico-esoterico, tramite l’aiuto delle divinità planetarie

 

Questo percorso prende avvio dalla finestrella situata sul lato settentrionale della Cappella, dove l’animula di don Stefano doveva fuoriuscire virtualmente, venendo accolta sul carro della dea Selene o Luna (prima formella sulla volta), contraddistinta dalla falce sul capo. Sulla superficie del vano della finestra, si notano dei segni a rilievo: il signor Nello li ha classificati come impronte delle dita di don Perinei sulla malta fresca. A sinistra e a destra della finestra ci sono due sculture: una vestale di pagana memoria e un sacerdote cristiano. L’anima prosegue il suo viaggio e approda sul carro del Sole (seconda formella sulla volta). Il cielo, che nella formella precedente era denso di nubi, si sta gradualmente schiarendo e nella terza scena le nubi sono scomparse e troviamo Marte, munito di corazza, lancia, scudo e vessillo. Dal dio della guerra l’animula transita verso Giove, il padre degli Dei, mentre una nube fa capolino in uno spicchio del cielo e sembra divenire sempre più minacciosa nella formella seguente, quella di Saturno, dove il Signore del Tempo è trainato da due draghi e corre veloce, con la testa girata all’indietro. La falce è nella mano, classico attributo di questo dio legato all’Età dell’Oro. La nube passa da sinistra a destra, come la troviamo nella sesta formella, occupata da Venere, sul carro trionfale, e dal figlio Cupido, con il suo arco e frecce. Il viaggio dell’anima termina nella settima formella, con Mercurio, qui in veste di psicopompo, anch’egli su un carro trionfale trainato da due corvi, Nella mano sinistra regge il Caduceo, il suo attributo caratteristico, mentre con la destra indica il Cielo, sede elettiva del Regno di Dio

Ad occhio nudo i soggetti delle formelle sono praticamente impossibili da vedere, tranne in qualche punto. Altre, come quella di Saturno, l'abbiamo messa in evidenza abbastanza bene con l'elaborazione digitale. Ricordo, però, che si possono vedere tutte i riempimenti ricostruttivi ottenuti con la computer-grafica, nel lavoro di Nello Camozzi pubblicato in questo sito.

 

  Formella della Luna: partenza dell'anima; ad occhio nudo sono rimaste ben visibili le nuvole (foto a destra

  Formella di Saturno (contrasti ottenuti al pc)       Formella di Venere (appena leggibili i contorni)

 

c) cristiano, con l’aiuto delle preghiere dei santi

 

Il corteo di figure religiose scolpite sotto le formelle “eretiche” andrebbe letto come “supporto” al viaggio dell’anima immaginato e in relazione con i soggetti delle formelle stesse, poste in loro corrispondenza. Il “senso di lettura” di questi personaggi cristiani non inizierebbe (sempre secondo l’interpretazione fatta da Nello Camozzi) da San Maurizio, collocato sopra la prima Beatitudine, ma dal santo rappresentato sotto la formella della Luna (nel vano della finestrella nord), che probabilmente è Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), il fondatore dei Gesuiti (cui don Perinei appartenne). Nel vano finestrato si trova però anche una figura pagana, verosimilmente una vestale, di fronte a Sant’Ignazio. Proseguendo il percorso incontriamo (sotto la formella del Sole) una bella raffigurazione di un pontefice munito di tiara (o triregno), identificato con San Silvestro I, morto il 31 dicembre del 335 d.C. , che fu papa durante il passaggio dalla religione pagana a quella cristiana, detto anche “l’uomo di Costantino”. Conclude la parete settentrionale la figura di un santo vescovo, probabilmente San Nicola di Bari (250 ca. – 326 d.C.)[6].

 

                                               

                                     Il papa e, sopra, la formella del Sole (illeggibile tranne il cielo)

 

 

Passando al lato est, già abbiamo visto prima le figure a cavallo di San Maurizio e Sant’Alessandro, separate dalla nicchia-altare (un tempo ingresso usato solo da don Perinei). Sopra questa parete, sulla volta, troviamo le formelle di Marte, Giove e Saturno. Sulla parete sud incontriamo un primo santo, che con ogni probabilità è (ancora) Sant’Ignazio di Loyola. Abbiamo detto che egli fu il fondatore della Compagnia del Gesù (Gesuiti), un ordine gerarchico potente e costituito da personaggi sapienti, cultori della mitologia classica, dediti alla carità ma sappiamo che essi furono sospettati di "eresia", di avere legami con gli "Alumbrados" in Spagna, e proprio S. Ignazio di Loyola avrebbe avuto intensi legami con questi ultimi (secondo alcuni fondati dagli stessi Gesuiti), insomma alcuni tra loro avevano un modo di intendere la teologia ad un livello sicuramente più esoterico[7]. La formella della volta corrispondente è quella di Saturno. Oltre S. Ignazio è raffigurata una santa, seguita da San Floriano di Lorch (- 304 d.C.), patrono della buona morte, invocato contro gli incendi. I due santi si trovano rispettivamente in corrispondenza delle formelle di Venere  e di Mercurio, sulla volta.

 

           

 

Il Cristo trionfatore, nel mezzo della volta, entro una sorta di mandola mistica, sembra riunificare i tre percorsi nella Gloria eterna. Un Cristo che reca una raggiera sul capo, evocante le lingue di fuoco delle divinità pagane solari. Poggia i piedi sul capo di un putto alato mentre lo sfondo è arricchito di cordoni vegetali, fiori e frutti. Attorno al Signore si riconoscono (sul lato sinistra per chi guarda) Maria, incoronata, sotto di lei San Pietro (con le chiavi), San Giovanni e forse altri discepoli; dal lato opposto si riconoscono Giovanni Battista (con il vessillo), San Bartolomeo (con il coltello).

 

                      

 

Al di sotto di Cristo si trovano un vescovo (con il tipico copricapo e le braccia incrociate sul petto) e alcuni personaggi di difficile distinzione. Uno di essi, con dei baffi spioventi, sembra sospingere chi lo precede verso Gesù. Forse si tratta di don Vinetti e di don Stefano stesso?

 

    

 

Lo Spirito Santo, raffigurato da una colomba (purtroppo acefala) contornata da raggi fiammeggianti, conduce a Dio Padre con il triangolo trinitario sul Capo, attorniato da quattro volti angelici. In ambedue le mani regge i lembi di un cartiglio su cui si intravvedono delle lettere ma troppo malamente per poterle leggere! Eppure sarebbe importante sapere cosa vi fosse scritto. Probabilmente il cartiglio non presenta l’eventuale frase rivolta ai visitatori ma verso il busto di don Perinei, la cui nicchia invade perfino (appoggiandovi) la formella con Dio Padre stesso. Idealmente, gli occhi del parroco potevano eternamente fissarsi su quella frase (che sicuramente era stata voluta dal committente).

 

 

 

  • Non è finita…

 

Resta da segnalare ancora qualcosa di interessante. Un volto “parlante”, incassato sotto la nervatura della volta della scala sinistra, sul lato sud-ovest: risulta l’unico ad avere un’espressione simile, con le labbra dischiuse come se stesse dicendo qualche cosa. Ai suoi lati degli splendidi fiori, forse delle rose selvatiche, con sei petali e un grosso pistillo. La volta di questa scala doveva avere una formella che è stata staccata come le altre sette, e come una nona, che ricopriva il soffitto della scala controlaterale (nord-ovest). In totale, si avevano dunque nove formelle nella cripta. Cosa rappresentavano, queste ulteriori formelle? Se vennero tolte, molto probabilmente anch’esse recavano scene mitologiche o di divinità pagane, considerate inaccettabili. Il Camozzi ci informa che furono rasate, tuttavia, in epoche recenti con lo scopo di rappresentarvi altri soggetti, quelli che si riescono a vedere attualmente. Solo l’abilità di Nello ha potuto far riemergere, con i mezzi di computer-grafica, le probabili scene originarie: Gea (Grande Madre Terra), a sinistra, e Urano (il Cielo, Padre di tutti gli dei, figlio e sposo di Gea), a destra.

 

                                        

                                                                                  Il "volto parlante"

                                        

Sopra e sotto, le due sinopie moderne, sotto le quali si trovavano gli stucchi seicenteschi, staccati perchè probabilmente recanti anch'essi divinità pagane, considerate eretiche

                                       

 

 

  • Considerazioni finali

 

Dopo quanto abbiamo potuto vedere di persona, l’impressione è che si tratti di un ambiente molto suggestivo, dalla notevole raffinatezza architettonica e stilistica. Originariamente doveva sembrare un vero “universo” magico. Appena siamo scesi dalle scale, ci è venuto alla mente un mitreo. Il numero sette delle formelle e delle nicchie della volta è molto interessante e ricorda la dottrina mitraica[8], che prevedeva l’attraversamento di sette porte e delle sette sfere dei pianeti attraverso cui passavano le anime degli iniziati. Sette erano anche i gradi di iniziazione mitraici, posti sotto la protezione dei sette pianeti[9]. Secondo altre versioni del mito, erano collegati anche ad un giorno della settimana e ad un metallo. Ai gradi si giungeva attraverso prove e cerimonie delle quali sappiamo molto poco, trattandosi di una religione misterica, che si svolgeva in templi sotterranei (mitrei). Il cristianesimo sincretizzò diversi aspetti del mitraismo e di altri culti misterici (anche il cristianesimo autentico, inizialmente, lo fu) ma sotto la veste religiosa, mitologica e allegorica, può essere individuata una chiave di lettura ermetica o alchemica (anche il cristianesimo ne ebbe una). Non sappiamo se don Perinei appartenesse ad una specifica scuola filosofica ma la sua preparazione culturale era certamente elevata (ricordiamo che era notaio e protonotario apostolico, nonché amico del grande Decio Celéri). Da dove trasse l’ispirazione per il progetto simbolico-decorativo della propria dimora eterna? Per cercare di comprenderlo, dobbiamo tenere conto del periodo in cui egli visse ed operò, un periodo contraddistinto dalla Controriforma da un lato e dalla diffusione e proliferazione di testi ermetici dall’altro. La politica della Controriforma in campo artistico tese a “combattere le licenze e gli abusi nel campo iconografico, insistendo sull’esatta aderenza ai fatti della storia cristiana e alle verità teologiche, sfrondati da ogni elemento proveniente da tradizioni apocrife o popolari, e spinse a evidenziarne i valori edificanti. Questo rigido atteggiamento comportava anche l’eliminazione di elementi profani e un particolare controllo sulla decenza delle immagini”[10] (ricorderemo come Paolo Veronese subì un processo per aver dipinto cani, nani e buffoni nella sua “Ultima cena”, che non figuravano nel testo evangelico, o le asprissime critiche a Michelangelo per aver introdotto dei nudi negli affreschi della Cappella Sistina e la figura di Caronte, il traghettatore delle anime). In campo letterario l’Inquisizione fu autorizzata alla lotta all’eresia con la censura preventiva e repressiva. Un’atmosfera non certo allettante, tuttavia sappiamo che la sete di conoscenza non si arrestò. Don Perinei e suo nipote erano perfettamente a conoscenza delle disposizioni controriformiste, eppure le sfidarono: perché? Qualcuno protesse il loro operato, fino ad un certo momento? Da dove trassero l’ispirazione per la simbolica decorazione della cripta? Da dove proviene l’idea del viaggio dell’anima così strutturato, che si propone come un unicum, da quanto ci consta? Da qualche dotto trattato circolante nel circuito umanistico bergamasco del tempo? L’amico di don Perinei, il Celéri, ne aveva del resto prodotti. Non dimentichiamo che l'Ordine dei Gesuiti, cui verosimilmente don Stefano apparteneva, era costituito da menti nobili ed eccelse, che in campo astronomico non erano seconde a nessuno e a quel tempo l'astronomia era una scienza che andava pari passo con altre discpline dell'antica Tradizione sapienziale.

 

                                       

Battistero che fece realizzare don Perinei e che è ancora conservato in fondo alla navata della chiesa superiore; reca il suo nome in latino inciso superiormente

 

Nel Rinascimento era stato tradotto a Firenze uno dei più importanti testi esoterici chiamato "Corpus Hermeticum" (attribuito ad Ermete Trismegisto[11], in realtà collocabile tra il II e il III sec. d. C. e un tempo ritenuto molto più antico), composto da 14 trattati che vennero diffusi in Europa grazie alla loro traduzione ad opera di Marsilio Ficino negli anni 1463-‘64. Fu il periodo in cui la magia, le scienze considerate occulte, la riscoperta dei grandi filosofi dell'antichità visse un momento di grandissimo splendore. Tra il  XV e il XVIII secolo l'iconografia ermetica si arricchì di immagini simboliche di provenienza sia neopagana rinascimentale sia da una sintesi proposta dai libri di emblemi e di imprese. Dal 1500 al 1800 proliferarono gli emblemi su base mitologico-pagana. Filosofi o Alchimisti, in special modo, ne fecero largo uso; da sempre avevano celato nell’Architettura, nelle Poesie, nelle Favole, nelle Opere Musicali, nei Miti, i segreti del Magistero Alchemico. Tutta questa componente di mistero e di occultazione, è dovuta principalmente al fatto che l'alchimista ricerca la decifrazione e la conoscenza delle Leggi della Natura, delle norme che la regolano, che la trasmutano, in quell'incessante flusso che va dall'Uno al Molteplice e viceversa. Il più Grande Mistero dell'Uomo e del senso della vita.

 

                                   

Confessionale ligneo, con elaborati e simbolici lavori ad intaglio, voluto da don Giuseppe Vinetti. Sul fronte reca le iniziali del suo nome, in latino. Si trova in fondo alla navata della chiesa, opposto al Battistero voluto dallo zio, don Stefano Perinei

 

Diversi Testi erano a disposizione dei dotti e ne citiamo solo alcuni: nel 1499 venne pubblicato a Venezia il più celebre libro illustrato rinascimentale, opera di Francesco Colonna, dal titolo "Hypnerotomachia Poliphili", che nel 1600 venne ristampata a Parigi in una versione diversa firmata da Bèroalde de Verville,che intese rivelarne i contenuti alchemici (e che pare rifarsi ad un precedente lavoro di Jacques Kerver del 1546); nel 1531 uscì un lavoro, ad opera di Andrea Alciato (illustre giurista lombardo), dal titolo "Emblemata" (Emblematum Liber). Verso il 1540 Nostradamus scrisse "Interpretation des hièroglyphes de Horapollo". Nel 1588 viene pubblicata a Roma un’opera di Principio Fabrizi, "Delle allusioni et emblemi sopra la vita, opere et attioni di Gregorio XIII", in occasione della celebrazione del Papa; le incisioni sono chiaramente di ispirazione pagano-alchemica. Nel 1612 venne stampato il primo grande trattato alchemico sui miti greci ed Egizi, "Arcana Arcanissima", dovuta ad un paracelsiano e rosacroce, medico e segretario privato dell' imperatore-alchmista Rodolfo II a Praga: Michael Maier (1568-1622). In quest'opera l'autore colloca la mitologia pagana quale allegoria ermetica dell'Antica Scienza Alchemica, opera che divenne un caposaldo per tutti gli alchimisti dei tempi seguenti. Nel 1593 comparve una Iconologia, di Cesare Ripa, che vide la prima pubblicazione illustrata nel 1603, in cui vi sono schedate ed elencate varie figure cui poterono riferirsi stereotipatamente gli alchimisti seguenti. Nel corso del 1600 videro la luce altre opere fondamentali per l'iconografia ermetica: l' Atalanta Fugiens, sempre del Maier, costituita da cinquanta incisioni eseguite dal maestro tedesco Matthaus Merian il Vecchio, e il Viridarium Chymicum, di Daniel Stolcius, costituito da centosette incisioni[12].

 

                                         

   Nello Camozzi e un parroco all'interno della cripta: sono tanti gli enigmi da sciogliere in essa

 

Tornando alla cripta di San Vincenzo Martire e ad una possibile rilevanza alchemica nei simbolismi presenti nelle formelle, ricordiamo che sette sono le fasi dell’Opus alchemico, chiamate anche “Regimi” o Regni ai quali - come scrisse Fulcanelli – “i filosofi hanno attribuito una delle divinità superiori dell’Olimpo ed anche uno dei pianeti celesti la cui influenza si esercita parallelamente alla loro, nel medesimo tempo della loro dominazione. Secondo l’idea generalmente diffusa, pianeti e divinità sviluppano la loro potenza simultanea secondo una gerarchia invariabile: al regno di Mercurio (base, fondamento, primo stadio dell’Opera), succede quello di Saturno (Chronos, il vegliardo, il pazzo), poi domina Giove (unione, matrimonio), poi Diana o la Luna (intero, completo), la cui veste scintillante è ora tessuta di capelli bianchi, ora fatta di cristalli di neve, poi eredita il trono Venere (votata al colore verde, bellezza, grazia), ma ben presto Marte (adattato, stabile) la scaccia e questo principe bellicoso dai vestiti tinti dal sangue coagulato, è a sua volta rovesciato da Apollo, il trionfatore, il Sole del Magistero, imperatore vestito di brillante scarlatto il quale stabilisce definitivamente la sua sovranità e la sua potenza sulle rovine dei suoi predecessori”[13]. Linguaggio significativo per gli Iniziati ma incomprensibile ai profani, arcano, segreto, velato dall’allegoria, perché la rivelazione e la divulgazione dei procedimenti e dell’applicazione pratica restano interdette, essendo privilegio esclusivo di Dio e dunque non comunicabile con un linguaggio chiaro.

Quale fosse il reale livello di conoscenza del progettista della cripta della chiesa di S. Vincenzo resta avvolto dalla nebbia del tempo e del mistero, per adesso. Chi era veramente don Perinei? Come mai esercitava il sacerdozio in un piccolo paesino, avendo cariche così importanti? Come mai il suo busto venne privato di testa e mani? Perché suo nipote, don Vinetti, venne assassinato e messo nel suo stesso sarcofago? Perché, secondo alcuni, aleggia un’aria negativa lì intorno?

Molti punti che erano rimasti intrappolati nel passato, sono tornati alla luce e una parte della storia è stata svelata, grazie a studiosi determinati come il Camozzi. Rimangono delle domande che sono il sale della ricerca, che continuerà. Solo nuove scoperte potranno, infatti, fare luce sui tanti misteri che ancora giacciono nella cripta di Cerete Basso.

 

                                         

L'autrice con il ricercatore Nello Camozzi, all'interno della chiesa di S. Vincenzo Martire. La visita è finita, ma la ricerca continua...

 

 

RINGRAZIAMENTI:

Nello Camozzi per la disponibilità e la competenza dimostrate durante il nostro sopralluogo, e don Sergio Alcaini per la gentile autorizzazione alle fotografie.

 

APPROFONDIMENTI:

 

                                                 

 

 


[1] Il vescovo deteneva la proprietà di un vasto territorio che dal passo della Presolana raggiungeva gli antichi confini fra Cerete e Sovere. Per un certo periodo di tempo Cerete appartenne al Comune di Gavazzo, per poi divenire autonomo verso la metà del 1300.

[2] “Vasta azione svolta dalla Chiesa cattolica nel 16° sec. e in parte del 17° per restaurare una più intensa, viva, sincera e disciplinata vita religiosa, realizzando quella «riforma nel capo e nelle membra», già discussa nei concili del 15° sec. e resa ancor più urgente dal dilagare della Riforma protestante nel 16° sec.” (V. Enciclopedia Treccani online)

[3] Che a quel tempo governava il territorio, tramite il podestà di Bergamo. E’ agli atti un ducale in cui il doge di Venezia, Francesco  Erizzo (1566-1646), in carica dal 1631, risponde all’informativa che il podestà bergamasco gli aveva inviato, descrivendogli l’efferato delitto del curato don Vinetti. Il malcapitato, si legge, era stato ucciso con un’arma “abominevole”, un pestone, in circostanze “delle peggiori che possano trovarsi”. Il doge autorizzava ed esortava a far luce sull’accaduto e ad emettere una adeguata sentenza, ma si ritiene che le indagini non andarono troppo a fondo, cozzando contro l’omertà dei ceretesi, facendo sorgere il sospetto che la morte di don Vinetti fosse in qualche modo ritenuta giusta. E’ possibile che la sua colpa fosse solo quella di non aver tolto gli stucchi come ordinato dal vescovo?

[5] Che Gesù proferì durante il “Discorso della Montagna”, durante la sua Predicazione in Palestina. “Costituiscono il fondamento della legge evangelica, senza le quali non si può entrare nel Regno di Dio. Esse hanno tutte la medesima forma per renderne facile la memoria, e tutte mirano ad un bene escatologico, e cioè non di questo mondo” (Vangelo e Atti degli Apostoli, Edizioni San Paolo, 1987). Sono riportate dal Vangelo secondo Matteo (cap. 5), in quello di Luca (cap. 6), in cui il loro numero è ridotto a quattro, mentre una versione ridotta è presente ai versetti 54 e 69 del Vangelo di Tommaso (apocrifo)

[6] La presenza di questo celebre santo internazionale, potrebbe essere relazionata alla sua sepoltura a Bari, in Puglia, regione di provenienza del cognome Perinei (Camozzi, comunicazione verbale)

[7] Interessante articolo “Quegli eretici dei Gesuiti” di Massimo Firpo

[8]  Per una trattazione condensata v. Treccani

[9] I gradi erano, dal più basso al più alto: corax o corvo (posto sotto la protezione di Mercurio, simboleggia la morte del neofita, che doveva rinascere a vita nuova tramite un battesimo); Cryphius o Nymphus, l’occulto o crisalide (posto sotto la protezione di Venere,  è la fase di sviluppo verso la nuova vita); Miles o soldato (posto sotto la protezione di Marte, simboleggiava la lotta per la liberazione dalla materialità); leo o leone (posto sotto la protezione di Giove, è il grado che fa accedere all’Oltre, all’incommensurabile); perses o persiano (sotto la protezione della Luna, purificazione e fecondità; era rappresentato da Cautopates, vestito da pastore e con una torcia abbassata); Heliodromus o Corriere del sole (sotto la protezione del Sole,  era simboleggiato da Cautes che, sollevando la torcia, annunciava la levata eliaca e il viaggio quotidiano del dio solare attorno alla terra);  pater o padre (sotto la protezione di Saturno, era il massimo grado iniziatico, corrispondente all’Oro. L’iniziato era divenuto Adepto ed era la personificazione del dio, la luce del paradiso personificato). L’associazione dei pianeti ai gradi può presentarsi differente, a seconda delle versioni: essendo un culto iniziatico e sostanzialmente segreto, è pensabile che nel tempo e in luoghi diversi i misteri abbiano subito alcuni cambiamenti. Una di queste versioni associa la prima porta alla Luna e all'argento, alla seconda il Mercurio e il ferro, alla terza Venere e lo stagno, alla quarta il Sole e l'oro, alla quinta Marte e la lega, alla sesta Giove e il bronzo e alla settima Saturno e il piombo.

[10] Treccani

[11] Il tre volte grande, considerato il padre fondatore del sapere e scriba degli dèi, per molti collegabile al dio egizio Toth, inventore dell'alfabeto, depositario di tutte le Conoscenze. Divenuto Ermete per i Greci e i latini, che gli attribuivano l'invenzione delle arti e delle scienze, venne citato come autorità dottrinale anche da alcuni Padri della Chiesa come Tertulliano e Lattanzio, che lo definì "perfettamente dotato di ogni sapere”.

[13] “Le Dimore Filosofali”, Mediterranee, 2002

 

Argomento: I misteri della cripta di Cerete Basso

I misteri della cripta di Cerete Basso

Fabio | 23.03.2015

Grazie mille, non la conoscevo.Di grande impatto e retroscena da vero mistery-thriller storico-esoterico. Ma vi vedo anche del buon gusto, della eleganza mentale, dell'ordine di qualche livello superiore. Se c'erano dei documenti sono stati fatti sparire, o forse giacciono in qualche archivio e bisogna stanarli. Vorrei fare un'analisi geo-biologica del sito, è possibil?

R: I misteri della cripta di Cerete Basso

GIORGIO | 05.04.2015

Interessantissimo...

R: I misteri della cripta di Cerete Basso

Giorgio | 05.04.2015

Interessantissimo...

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