La misteriosa lapide a Campiglia Marittima:

                 alcune nuove considerazioni

                                                        (Marisa Uberti)

 

             

 

Dal “lontano” 2001 ci era stata sottoposta l’immagine di questa curiosa lastra epigrafica, che avevamo infatti inserito nel nostro sito tra i “misteri toscani”. A distanza di dodici anni abbiamo avuto l’opportunità di andare a vederla dal vivo. La generica indicazione che sia situata nel centro storico di Campiglia Marittima non è sufficiente per trovarla: il borgo è molto articolato e, per giunta, si trovano più lapidi sparse sulle facciate esterne di palazzi o abitazioni! Si rischierebbe di girare in lungo e in largo senza individuarla; fortunatamente il prof. Roberto Volterri ci aveva, a suo tempo, dato un piccolo ma fondamentale elemento per mirare la ricerca: “nei pressi del Teatro”. Con questa indicazione, chiedendo alla gente del posto, l’abbiamo rintracciata: è facilmente visibile perché incassata sulla facciata esterna (di passaggio) di un’ abitazione, al numero civico 4 di Via Bruno Buozzi. A circa 50 metri, in fondo alla strada, scendendo leggermente in discesa, si vedrà un arco sormontato da un edicola (contenente una statua di santo) e la scritta un po’ sbiadita “CINEMATOGRAFO” (c’è anche il cartello dell’Ufficio Informazioni). Ma non scendiamo perchè la nostra lapide è a destra, sulla facciata esterna dell'edificio.

 

          

 

  • La data incisa e il monogramma cristico

 

Fermiamoci davanti alla lapide (che, forse, è stata tagliata?). L’analisi epigrafica ci ha permesso, pur non essendo esperti, di leggere la frase incisa superiormente e che dice:

                                                              + A . d . M.  . CCCCLVIIII

La sigla YћS è notissima come cristogramma (Yesus Hominum Salvator)[1] e forse potrebbe essere un importante indizio per dare una identificazione al personaggio ritratto al di sotto (Gesù Cristo?). Da notare che la Y e la S sono maiuscole mentre la H, prolungata in una croce, è minuscola. Secondo chi scrive, il monogramma divide (ma non slega) la M dalle lettere seguenti, che si leggono come una data ben precisa: 1459. All’inizio c’è la croce (con cui tutte le frasi religiose latine iniziavano) seguita da A (Anno) d (Domini). La d è minuscola mentre dovrebbe essere maiuscola ma questo non è certo il primo caso in cui troviamo questa caratteristica. Sopra la terza C si nota un piccolo cerchio (una O?).

Dunque si legge: + Anno Domini 1459 (YћS è inciso non proprio sulla stessa riga, ma leggermente spostato in alto ed è in corrispondenza della figura sottostante, che analizzeremo tra poco).

 

                  

 

  • Analisi dell’iconografia

 

Al di sotto troviamo l’iconografia, entro una mandorla o scudo come si voglia intenderla, di un personaggio che è stato indicato come androgino, da taluni appassionati di esoterismo, che vi vedono le caratteristiche (che sembrano palesi) di attributi maschili ma anche delle mammelle femminili (sulle quali nutriamo alcuni dubbi, dopo averla vista dal vivo). Potrebbero essere dei pettorali molto pronunciati, che tuttavia stonano con quel collo esile e l’addome allungato. Chi è quest’uomo nudo?

 

              

 

Abbiamo sottoposto l’iconografia ad un nostro stimato amico ed esperto, l’architetto Riccardo Scotti, il quale ci ha gentilmente fatto avere un parere personale. A suo giudizio la figura centrale è un  vero e proprio scudo araldico, indicante una determinata persona, e il blasone è composto su uno scudo“perale”, che anticamente era molto usato in Toscana e si è standardizzato come scudo femminile, per le donne sposate, o per gli ecclesiastici. Dal momento che quello effigiato dovrebbe essere un maschio, potrebbe essere valida l’ipotesi che la lastra appartenesse ad un contesto religioso ma ancor di più ad un personaggio che rivestiva una carica ecclesiale. Non è da escludersi, ci suggerisce lo Scotti, che la lapide stesse sull’abitazione di una donna, forse vedova, della nobile famiglia.

La presenza del monogramma YћS indicherebbe il Salvatore, tesi supportata dalla posizione benedicente della mano destra; questa infatti mostra tre dita stese mentre il pollice e il mignolo (che manca, forse per traumi subiti dalla lastra nel corso del tempo) sono ripiegati nel palmo. E’ una posizione insolita per una benedizione (non è nemmeno bizantina), ma non unica nel panorama iconografico (potrebbe anche alludere alla Trinità). Ma valutando un’ulteriore ipotesi, potrebbe avere a che fare con le mudra (di cui abbiamo avuto modo di parlare nell’articolo dedicato alla Cattedrale di Monreale, PA). “Tale pratica è molto antica e, nella letteratura sacra indiana, assume il significato di "sigillo" o, in senso generale, di un marchio, lasciato da un sigillo ovvero come contrassegno sacro, cioè, del gesto che regala benessere”. I santi e in generale le persone cosiddette illuminate conoscevano bene (anche in Occidente) questa pratica mistica, questa gestualità sacra (che avrebbe anche potere taumaturgico) e non è infrequente trovare iconografie cristiane e soprattutto bizantine in cui Gesù tiene le dita in posizione da mudra (ma anche i santi). Posizioni differenti delle dita, corrispondono a pratiche differenti e specifiche.

Le dita del personaggio scolpito sulla nostra lastra sono stilisticamente singolari e sono viste sicuramente di palmo perché il pollice è ben distinguibile ripiegato nel palmo stesso, cosa impossibile da fare se la mano fosse girata di dorso. Il medio appare quasi più corto dell’indice e dell’anulare (a meno di “sbucciature” della pietra) e la forma delle tre dita appare grossolanamente eseguita. Il gomito destro appoggia su quella che sembra essere una trave o un asse inclinata, forse allusione al palo della crocifissione?

Il braccio sinistro è invece appoggiato sul fianco, più esattamente la mano sembra toccare sia la supposta “asse” che il fianco e le dita sono aperte. Questa mano mostra in particolare due dita in evidenza (un altro sottile “messaggio” muto?). Importante: le mani non hanno segni di stigmate

La ferita del costato potrebbe anche essere presente ma si confonde con numerose altre scalfitture. Sui piedi, mostrati di dorso, parrebbe di vedere ipotetici segni dei chiodi ma vi sono, anche in questo caso, troppe scalfitture della pietra che fuorviano la lettura. Specialmente sul piede destro è ben chiaro uno “sbreco” abbastanza ampio, poco compatibile con una “stigmata”.

Le gambe sono poco modellate.

Il volto del personaggio presenta una forma allungata ed è posto su un collo esile; è privo di barba ed è di giovane età. La testa non pare avere una corona ma è dotata di una chioma con scriminatura (o una cuffia molto aderente!). I lineamenti appaiono delicati: gli occhi sono ravvicinati, così le sopracciglia. La rima palpebrale sembra prolungarsi verso ambo i lati esterni (verso le tempie), conferendo all’espressione una nota di indefinibile sentimento. Gli occhi sono caratterizzati da pupille marcate, indicando il grado di veglia del soggetto. Naso e bocca sono sottili.

L’atteggiamento non è quello di un individuo in procinto di essere crocifisso, potrebbe rappresentare un Cristo già risorto, nella “Mandorla mistica”? Un Uomo Universale.

 

  • Croce o banda?

 

Si è discusso parecchio, tra appassionati, in merito alla presenza di quell’ ”asse” che sembra strettamente connessa all’uomo effigiato; essa non è una classica croce. Osservando attentamente la rielaborazione grafica ci è sembrato di individuare un palo (assai più sottile dell’asse messa trasversalmente) tra le gambe del personaggio, che passerebbe dietro la sua schiena o si ferma all’incrocio con l’asse messa in diagonale. In ogni caso, i due elementi, qualora facessero parte di una croce, appaiono difformi tra loro. 

 

                        

 

In realtà non sappiamo nulla della reale forma della croce che fu usata per crocifiggere Gesù (i Vangeli non ne parlano); a tal proposito esistono varie teorie: nel nostro immaginario collettivo ci hanno abituati alla classica croce immissa, formata cioè dall’incrocio dell’asse verticale (stipes) con l’asse orizzontale (patibulum). Nell’arte sacra troviamo a volte la croce commissa (a Tau) oppure sotto forma di “albero” o di tronco per esprimere il significato dell’Albero della Vita in parallelo con quello del giardino dell’Eden. Nei primi secoli dell’era cristiana Gesù Cristo non veniva rappresentato crocifisso, ma fu dal V secolo che iniziarono a circolare iconografie che mostrano il Salvatore come “atleta vincitore” (vestito solo del Subligaculum); Egli è ritratto adolescente (tipo romano) e solo in seguito fu sostituito dal volto barbuto (siriano). Nel VI secolo si andarono diffondendo raffigurazioni in cui Cristo crocifisso era “trionfante”, non morto ma vivente, Signore dell’Universo. Fu intorno all’XI secolo che prese sempre più piede la figura del Cristo sofferente in croce, o morto (che è giunta fino ai giorni nostri). Se quello effigiato nella lastra di Campiglia è Gesù, chiaramente non appartiene a quest’ultima categoria artistica.

Altro aspetto è la nudità cui abbiamo accennato. Nelle prime raffigurazioni cristiane, Cristo appare abbigliato con una tunica solenne di colore rosso intenso o violaceo (simbolo di regalità), il Colobium. Questa veste venne sostituita dagli artisti sacri a partire dal IX secolo circa, quando a cingere i fianchi di Gesù fu il panno (perizonium), lasciando il resto del corpo praticamente svestito. Pare infatti che nessun artista osasse raffigurare Gesù Cristo in tal modo. Esistono tuttavia alcuni rari esempi di Cristo completamente nudo, che spariranno totalmente dopo il Concilio di Trento (XVI sec.). Molte nudità artistiche (vedi Michelangelo) furono coperte, fino a tempi più recenti in cui la sensibilità è cambiata.

Interessante conoscere la posizione descritta dai Padri della Chiesa, secondo i quali Gesù  andò in croce nudo:

  • San Giovanni Crisostomo: « Egli (Gesù) era condotto nudo alla morte; egli rimaneva nudo in mezzo a quella gente ».
  • Sant'Efrem: « La luce degli astri fu oscurata, poi ché era stato veramente denudato colui che veste tutte le cose ».
  • Sant'Ambrogìo: « Il Salvatore si apprestò a salire sulla croce, lasciandosi spogliare di tutto, e nudo ascese il trono del suo dolore ».
  • Sant'Atanasio: « Gesù Cristo, che si spoglia degli abiti di cui è rivestito, è Gesù Cristo che depone nella sua morte tutte le nostre miserie, tutti i nostri pec cati che aveva assunto sopra di sé ». (rif. al sito La Passione di Gesù)

Il personaggio della lastra è nudo, senza barba, senza la classica croce: se rappresenta Gesù Cristo, a quale periodo risale quest’opera? Da quanto abbiamo appena esposto, potrebbe essere ben più antica del XV secolo, che è il riferimento cronologico impresso nella parte superiore.

 

Il nostro corrispondente Riccardo Scotti, come abbiamo già riportato poc’anzi, ha espresso il parere che l’iconografia possa essere inquadrata come “insegna araldica” e a tal proposito fa notare che lo scudo è attraversato diagonalmente da una “banda”, su cui è sovrapposta una figura umana maschile nuda, con il braccio destro levato a sostenere tre elementi affusolati, oppure a impartire una sorta di benedizione con tre dita protese (simbolo della Trinità?).

Se questo è uno stemma familiare, a quale casata appartenne?

 

  • Glifi enigmatici (ma non troppo)

Osserviamo lo spazio ai lati dell’iconografia, dove sono incisi i segni più enigmatici di tutta la lastra:

 

 

Importante evidenziare che i due elementi sono speculari tra loro, seppure divergenti nella profondità dell’incisione, più marcata sul lato sinistro (per chi guarda). E’ chiaramente leggibile una croce di Lorena ma quali lettere (se tali sono) sormonta? Ad aiutarci nella loro possibile interpretazione è ancora una volta Riccardo Scotti, che oltre a convalidare la specularità dei due simboli e la presenza della croce di Lorena, ritiene che essa sormonti un monogramma costituito dalle lettere “EM” e “ME”, forse le iniziali del nome e cognome del proprietario (o proprietaria) dello scudo (o della casa?). Questo spazzerebbe via le ipotesi di strani o arcaici alfabeti (si è tentato di spiegarle con l’etrusco o qualche lingua orientale…). Tuttavia è evidente la difformità stilistica tra questi caratteri epigrafici e quelli delle due frasi latine (superiore e inferiore); ciò pone altri interrogativi, sebbene lo Scotti ci informi che per l’invenzione di monogrammi (molto diffusi nell’antichità) si adottavano modi e stili estremamente vari e liberi. Naturalmente stiamo formulando delle semplici ipotesi di studio: non è infatti certo che si tratti effettivamente delle iniziali EM o ME.

Sarebbe importante sapere dove si trovasse la lastra in origine. Questo fornirebbe alcuni spunti di riflessione. E’ sempre stata su questa casa? Chi vi ha abitato? Quel qualcuno ha avuto qualcosa a che vedere con la presenza della lapide enigmatica?

L’iscrizione posta sotto l’iconografia ci potrebbe però dire qualcosa in merito, poiché recita così:

 

         

 

Come si vede, tra alcune parole non c’è il puntino di separazione ma un motivo a piccola losanga.  La frase è trascrivile come

                                            

                                                “HEC . DOMVS . ĨCEŤA . FVIT . DE . MENSE . IENUARII”

 

Il termine ĨCEŤA, che presenta i trattini sulla I e sulla T, dovrebbe indicare la parola abbreviata IACENTA che può assumere diversi significati ma quello che pare più pertinente in questo contesto è sostanzialmente interpretabile come  “giacente” (che sta), ovvero  le cui fondamenta furono gettate dal mese di gennaio. L’anno potrebbe essere quello riportato superiormente, cioè il 1459.

La lapide quindi commemora l’edificazione (l’inizio o posa della prima pietra) di “questa casa”.

Ma quale casa? Quella sulla quale ancora oggi si trova o la sua origine è un altro luogo? La casa doveva essere importante, se ci si prese la briga di tramandare ai posteri il momento della sua esistenza. Attendiamo anche le vostre considerazioni.

 

  • Confronti importanti e una possibile soluzione

 

Una comparazione la possiamo, per il momento, operare con una lastra funeraria che abbiamo visto all’ingresso della Pieve romanica di San Giovanni, nel Cimitero Comunale di Campiglia Marittima. Essa, apparentemente, diverge per materiale, forma, stile e funzione da quella di via Buozzi, 4 ma ha un fondamentale punto di contatto: lo stemma centrale.

La lastra è di colore rossiccio, assai deturpata e danneggiata, con evidenti segni di tentativi di ricomposizione. Si riescono a leggere delle parole, incise lungo il bordo esterno e che sono riportate (per essere più precisi) sul Catalogo Collettivo dei Beni Culturali Livornesi:

“HIC IACET AI ISIDOR(US) / PETRI DE CAPILIA HOC OPUS FECIT FIERI BAR / TOLOMEUS PETRI ET FLORE(N) / TIUS MICHAELIS DE CAPILIA A.D. (M)CCC(...)IIII”

 

                                    

 

Probabilmente questo era un personaggio importante per l’antica Campiglia Marittima. La sua lapide ha resistito nel tempo (verosimilmente era interna alla Pieve) ed è stata conservata in posizione diremmo privilegiata, immediatamente prima dell’ingresso alla chiesa (anche se viene continuamente calpestata per poter accedere all’interno dell’edificio). Non abbiamo trovato informazioni su Isidoro Petri di Campiglia (o Isidoro Pietro De Capilia, cioè di Campiglia), ma un certo Bartolomeo Petri (fautore della lapide insieme a tale Fiorenzo Michele De Capilia, forse imparentati) è citato nelle cronache come frate minore francescano e vescovo suffraganeo di Bologna, già vescovo di Dragonara (in Capitanata). A Bologna egli avrebbe posato la prima pietra della cattedrale di San Petronio. Morì nel 1403. E’ forse lui (forse figlio o fratello di Isidoro Petri, portano infatti lo stesso cognome) il personaggio citato nell’epigrafe funeraria? Sarebbe veramente utile appurarlo e il perché è presto spiegato.

In tutto questo ci interessa il motivo iconografico che si intravvede appena (perché consuntissimo) al centro della lastra funeraria: un individuo piuttosto simile a quello effigiato sulla lapide del centro storico, con la trave messa diagonalmente, con la posizione delle braccia abbastanza simile (non si vede se la mano destra sia in atto benedicente ma è alzata o sta reggendo qualcosa; la sinistra sembra appoggiarsi sul fianco). Il sesso anche in questo caso sembra maschile mentre la parte inferiore è interrotta da una frattura della pietra. La testa si distingue, mentre i lineamenti molto poco.

 

                           

 

La “banda” dietro il personaggio tocca i bordi dello scudo, da quanto è permesso osservare, cosa che nella lastra della “casa” non avviene ma questo, ci spiega Scotti, è abbastanza normale se si tiene conto che i due diversi esecutori non avevano probabilmente le stesse conoscenze araldiche. Sappiamo che l’Araldica prevede che la banda tocchi i margini dello scudo ma stabilisce anche una inclinazione precisa della stessa, regole che non sono quasi mai ottemperate.

Esiste un possibile legame tra le due lapidi? Pare proprio di si.

Ciò che sembra emergere con una certa chiarezza è che l’iconografia si riferisca ad uno stemma araldico e, dopo quanto abbiamo detto, si fa strada l’ipotesi che sia appartenuto ad un ecclesiastico, e alla famiglia di questi. Per questo ci pare importante stabilire se quel Bartolomeo Petri sia stato effettivamente vescovo suffraganeo (dell’Ordine dei frati minori), un ecclesiastico. Qual’era il suo blasone? Che poi dovrebbe essere quello della sua famiglia, dato che egli morì nel 1403 e la lastra della “casa” data 1459. E’ verosimile che i discendenti (collaterali, dal momento che un prelato non avrebbe avuto prole), abbiano continuato ad usarlo, anzi dovrebbe proprio essere così. Ma se il blasone compare già sulla tomba di Isidoro (padre o comunque parente di Bartolomeo), da quanto tempo la famiglia aveva assunto come stemma quella iconografia? E perché? Tali risposte sarebbero importanti anche nel caso in cui il Bartolomeo citato non fosse il frate minore/vescovo, perchè se si trova la famiglia cui apparteneva quel blasone, avremmo quasi risolto il mistero della lapide di via Buozzi, 4.

La datazione della lapide funeraria di Isidoro è purtroppo incerta: se il Bartolomeo (vescovo) morì nel 1403, essa deve essere necessariamente antecedente, dal momento che egli risulta tra i committenti della sepoltura. I numeri romani incisi sulla lastra tombale risultano essere (M)CCC(...)IIII, che però sono mancanti di un fondamentale tassello.

L’ipotesi, come suggeriscono taluni, che la lapide della casa di via Buozzi, 4 fosse stata appannaggio della dimora di un alchimista non è al momento suffragata da fonti documentali.

Ma la Ricerca continua...

 

Il nostro breve ma efficace video:

 

 

 


[1] Il cristogramma può essere trovato variamente scritto; la più frequente versione è “IHS” o “JHS”.