L'avventuroso viaggio di padre Giuseppe di Rovato

 (di Alberto Fossadri)
 

Di padre Giuseppe sino alla sua partenza per la missione in Tibet sappiamo ben poco. Le pazienti e diligenti ricerche fatte da frate Gottardo da Como negli archivi di Milano, Bergamo, Rovato, Brescia e Roma non diedero risultati ed io stesso ho potuto verificare la presenza di troppe lacune nei registri anagrafici rovatesi per poter identificare con esattezza la figura di questo grande religioso.

20161202_090318Si dà per scontato che si chiamasse Giuseppe Costa e come tale è nominato nella targa marmorea affissa sul lato meridionale della chiesa parrocchiale di Rovato, ma personalmente credo sia un’affermazione imprecisa. L’assegnazione di questo cognome si basa principalmente su una testimonianza di inizio ‘900 della famiglia Costa che attribuisce a sé stessa la parentela con questo personaggio (testimonianza raccolta con la pubblicazione voluta da mons. Zenucchini negli anni 60). Per quanto questa parentela sia vera, dobbiamo ricordare che nelle lettere spedite dal padre cappuccino egli faceva menzione di un nipote, tale dott. Girolamo Costa, senza specificare se fosse nipote da parte di fratello o di sorella, ed è l’unico legame familiare certo che è emerso nelle documentazioni rintracciabili sul frate.

La storia della sua vita e della sua missione apostolica è stata perfettamente ricostruita nel 1945 da padre Gottardo da Como, che l’ha pubblicata ad Asmara (Etiopia Italiana occupata dagli inglesi) in quel periodo molto delicato per la storia, con il titolo La missione del Tibet-Hindustan negli scritti di P. Giuseppe da Rovato O.F.M. Cap. Prefetto Apostolico del Tibet – Scuola Tipografica Francescana, Asmara, 1945. Un libro estremamente raro e difficile da scovare che mi è stato prestato da don Giovanni Donni, notevole anche per la trascrizione integrale di tutte le lettere esistenti che il frate rovatese ha scritto ai suoi destinatari in Europa.

Non voglio descrivere tutta la vita e le attività del frate (vita molto ricca e movimentata) perché dovrei necessariamente tagliare numerosi aneddoti troppo succosi e interessanti, per i quali rimando appunto a questo libro, oppure al più facile da ritrovare: Padre Giuseppe Costa da Rovato – Tipografia Luigi Donati, Rovato, 1968.
In questo articolo voglio raccontare il viaggio che ha portato il giovane frate a raggiungere la meta delle sue predicazioni. Nelle difficoltà, nei pericoli e nel tempo del viaggio si può misurare l’enorme fede che muoveva lo spirito di questo bresciano e la meravigliosa avventura che vivevano gli esploratori del passato.

Percorso padre Giuseppe da Rovato

  • Dall’Italia al Nepal

Clemente XIIIPapa Clemente XIII

Padre Giuseppe doveva aver preso i voti nel 1752 e aveva svolto i primi incarichi nel bresciano. Nel 1761 fu stato convocato a Roma dalla S. Congregazione di Propaganda Fide, dove ricevette dal Ministro Generale la patente per quell’incarico cui il frate aveva fatto domanda ormai da tre anni. Era stato unito al viaggio che lo attendeva ad altri due confratelli cappuccini: padre Baldassarre da Peretola (Toscana) e padre Giuseppe Alfonso da Palermo, con i quali venne ricevuto da papa Clemente XIII che impartì loro la benedizione apostolica.

«Domenica scorsa il Papa ci ammise in una udienza particolare al bacio del sagro piede, e ci accolse con buonissime maniere parlando della missione».

Partiti da Roma il 31 agosto 1761, il 24 settembre s’imbarcarono a Livorno verso Palermo dove soggiornarono quattro giorni, perché già nel mar Tirreno la nave aveva incontrato burrasca e il pennone della nave si era spezzato. Un mese dopo approdarono in Terrasanta a Caifa, territorio turco, dove padre Giuseppe non poté visitare il monte Carmelo perché febbricitante (immaginiamo cosa significassero questi lunghi viaggi per mari burrascosi, per un bresciano di terraferma…). Proseguirono per mare fino a Tiro e Sidone con gran difficoltà perché il vento era contrario e poterono arrivare solo nelle vicinanze di Beirut il 2 novembre. Padre Giuseppe aveva ancora febbre. A dire il vero tutta la sua prima parte del viaggio fu caratterizzata da una grande indisposizione, ma nelle sue lettere non dà troppa importanza al suo malessere ed emerge l’entusiasmo che lo accompagna, unito alle prime paure.

Avrebbero dovuto proseguire per Aleppo, ma i confratelli cappuccini incontrati in Libano li avevano convinti a prendere un’altra via, perché in quella città si stava dilatando un’epidemia di peste. Si unirono dunque ad una carovana di altri missionari che stava partendo per Damasco salendo le montagne, dove padre Giuseppe notò folti stormi di stornelli, allodole e pernici in gran quantità e notò come le capre del posto fossero più grandi di quelle bresciane e le pecore avevano code larghe e pesanti circa 10 libbre che impedivano i movimenti nella corsa.

Dopo sei giorni di cammino arrivarono a Damasco, da lui descritta come una città di circa 300mila persone, di cui 20mila cattolici, ricca di fontane d’acqua non solo nelle strade, ma anche nelle case e negli ospizi e nonostante avesse ancora la febbre, volle andare in visita al luogo in cui Saulo di Tarso cadde da cavallo.

Dopo tre giorni partirono per Baghdad con una carovana di 500 cammelli e 200 uomini, dopo aver trattato mediante un dragomanno con un mercante turco per i cammelli, il vitto, l’acqua e la tenda. I frati del posto raccomandarono loro di munirsi di frutta e biscotti, perché non c’era "da fidarsi poi troppo di questi turchi". La prima sera di viaggio infatti, furono lasciati senza cena e senza tenda e capitò spesso nei giorni seguenti che gli si facesse mancare del cibo. La traversata del deserto siriano fu estenuante: più di 400 miglia senza vedere una pianta verde dopodiché, nei deserti arabici, ogni due o tre giorni trovavano un pozzo attorno al quale si riposavano per qualche tempo e, in mancanza di legna da ardere, cuocevano il riso con lo sterco secco dei cammelli.

«In tutto questo tempo non abbiamo mai avuto acqua chiara, perché era torbida anche quella dei pozzi; e nei deserti della Siria per non esserci pozzi l’abbiamo dovuta bere per alcuni giorni così rossa che aveva quasi un terzo di fango e movea la nausea solamente a guardare […] Uno dei maggiori tormenti che ho provato in questa carovana dopo quello della febbre, è stato quello di non ritrovar alcuno che intendesse qualche poco l’italiano perché tutti parlavano arabo, e noi di ciò non sapevamo che alcune parole spettanti al vitto».

Il 5 dicembre arrivarono finalmente ad Al-Hillah sull’Eufrate dove i carovanieri imbarcavano le merci sul fiume dirette al Golfo Persico. Qui furono vessati dal conducente turco della carovana, che voleva cavargli altro denaro e per le strade dell’abitato rischiarono d’essere presi a bastonate da un gruppo di arabi che voleva derubarli, ma per fortuna arrivarono due signori turchi che avevano condiviso con loro il viaggio e presero i tre frati sotto la loro protezione. Il 10 del mese il Pascià della caccia (un ministro dell’Impero Ottomano) che era accampato nelle vicinanze con una scorta di 8mila uomini, avendo saputo di loro li fece convocare da un suo consigliere cattolico, che li accolse rispettosamente con lauto pranzo e buona cena, dopodiché li fece scortare a Baghdad dove entrarono il 15, accolti dal vescovo cattolico di quella città.

L’ospitalità è di casa nei costumi turchi, ma in quest’epoca è da tener presente che il grande impero ottomano era pur sempre un nemico delle potenze occidentali e che nel mondo islamico vivevano persone dotte e tolleranti, ma anche tanti facinorosi che non vedevano di buon occhio i cristiani. Il vescovo li informò appunto che pochi giorni prima, in città, un sacerdote cattolico di origini indiane era stato tagliato a pezzi per essersi fatto sentire a pronunciare parole poco lusinghiere nei confronti del profeta Maometto. I frati erano avvisati: non farsi troppo esuberanti se non si voleva incappare nella persecuzione islamica.

Ziggurat di Ur

I resti dello ziqqurat di Ur, potrebbero essere simili a quelli apparsi a padre Giuseppe

 

I frati trascorsero a Baghdad le festività natalizie per rimettersi in viaggio il 2 gennaio verso Bassora. Al primo giorno di viaggio attraversarono le rovine dell’antica città di Babilonia, dove il frate notò i ruderi della famosa Torre di Babele descritta nella Bibbia (sicuramente lo ziqqurat di cui oggi sono visibili poche tracce) e dalla sua lettera dimostra di esser rimasto un po’ deluso dalla sua altezza, ipotizzando che potesse trattarsi solo di un avanzo della sua vera antica possanza.

Padre Giuseppe aveva sempre la febbre. Durante il viaggio un cattolico che li accompagnava aveva contrattato per loro con un altro turco un imbarco per Bassora lungo il fiume Eufrate; stavolta ebbeto fortuna perché furono trattati bene: alloggiati nella zona coperta della barca e adagiati sulle stuoie.

Durante quei giorni ebbe l’opportunità di osservare la fauna del posto, i villaggi fatti di capanne di canne, i canali, le coltivazioni di riso e gli allevamenti di montoni, vacche e bufali. Nel punto in cui Tigri ed Eufrate si fondono, dal mare arrivava flusso e riflusso, a causa del quale durante la notte la barca fu trascinata inavvertitamente in secca. Perso un giorno per questo incidente iniziò anche il vento contrario e Bassorà fu in vista solamente il 24gennaio, dove i tre furono ospiti dei padri carmelitani e dove Giuseppe si dichiarava ancora febbricitante ma in forze, al che essendo quasi in primavera si prefiggeva di fare una purga come usavano fare i nostri nonni al cambio di stagione. Cura che nel suo caso pare abbiano funzionato.

A Bassora i frati dovettero attendere diversi mesi, perché i viaggi nell’Oceano Indiano erano determinati dai monsoni che cambiavano verso solamente due volte l’anno. Nella sua attesa obbligata, padre Giuseppe ebbe comunque modo di vivere alcune vicende che ha narrato con dovizia di particolari. Scrive dei festeggiamenti per la nascita del figlio del Gran Signore (il Sultano) celebrati con lo sparo dell’artiglieria, col suono di trombe per varie ore e con l’illuminazione di lampade ad olio per le strade della città, il tutto per sette giorni di fila durante i quali fuori dalle abitazioni i padroni delle case organizzavano posti a sedere per terra e si rendevano disponibili ad offrire caffè, pipa, dolci e liquori secondo le loro possibilità a chiunque si fermasse appresso. Padre Giuseppe espose come i signorotti facevano a gara per mostrarsi a maggior pompa in questa pratica e nota con francescana osservazione:

«Certamente sarà di molti milioni questa spesa fatta, tutta alle spalle dei poveri sudditi»

Padre Giuseppe assistette anche alla conversione di un cristiano armeno al “maomettanesimo” e alle celebrazioni entusiastiche della comunità musulmana per aver guadagnato un nuovo convertito. Nella lettera si dice sconsolato, perché non aveva mai visto da noi tanta allegrezza quando si guadagna qualche nuova anima alla nostra fede. Annota anche dei rituali del Ramadan, cui descrive l’atteggiamento ipocrita assunto dagli islamici di quella città: il gran rigore prestato durante il giorno faceva da contraltare alle grandi abbuffate consumate dopo il tramonto e ai divertimenti che si concedevano fino al levar del sole; la notte insomma, diventava tutto un gran carnevale.
Altro accadimento vissuto a Bassora dal nostro frate è l’invasione delle locuste che, gli riferirono, era una costante quasi di ogni anno tra marzo ed aprile.

«Io sono restato stordito a vederne un sì gran numero; dicono però che quest’anno è stato straordinario nella quantità. Infatti tre o quattro giorni tra gli altri erano queste locuste in sì gran numero che oscuravano l’aria e coprivano la terra, Dio sa per quante miglia. Se io non le avessi vedute non avrei saputo concepirne l’idea. Un giorno particolare ero sul gran fiume e principiarono a venire le locuste. Queste formarono nell’aria bassa una folta e oscura nebbia per l’estensione di qualche miglio, cioè fin dove tirava l’occhio […] Nel tempo che queste passavano, si sentiva un gran clamore dappertutto, perché uomini, donne e ragazzi, tutti escono dalle loro case o capanne e con gridi, urli, tamburi, legni e panni che girando per l’aria gli fanno paura, acciò non si posino sopra i loro seminati o alle palme, perché in poco tempo divorerebbero tutto. […] Quello che ho ammirato al passaggio di queste locuste è che queste genti procurano di trar profitto da questo stesso castigo che mette orrore, perché quando le locuste si posano in terra […] corrono con foglie di palma e con vesti, e procurano di percuoterle per prenderne, e poi le mangiano come un cibo molto prezioso. Di solito queste locuste si vendono molto care, perché ancora quando nei bazar ve n’è grande quantità, costano sempre più della carne. Io però nel vedere gli atri mangiare, non ho mai avuto il desiderio».

Passa poi a descrivere del tormento continuo di mosche, zanzare e soprattutto della sua lunga guerra contro i pidocchi, lamentandosi del fatto che gli arabi non si curavano di bruciare i parassiti dopo esserseli levati di dosso, con l’ovvia conseguenza che una volta gettati per terra qualcun altro li avrebbe raccolti. Racconta anche del terribile caldo a cui era sottoposto, un clima torrido e arido che rendeva Bassora il luogo dove la pioggia era totalmente assente nel periodo tra aprile ed ottobre, ma in cui tirava una brezza leggera durante la notte. Per questo motivo nei periodi caldi la gente dormiva sulle terrazze delle case, anche perché il calore delle mura di casa disturbava il sonno e cagionava l’itterizia, perciò si dormiva così per tutto il periodo caldo, ad eccezione di quando principiava lo scirocco. Faceva così caldo che il frate assicura di non averlo mai provato così forte in nessuna parte d’Italia. Nonostante ciò la città appariva ai suoi occhi come una società multilingue favorita dai commerci via terra e via mare con l’oriente e di cui invidiava la facilità nel reperire carne, pollame, riso e burro a prezzi più bassi rispetto a quelli che si avevano in Italia, anche se riferisce che non avrebbe mai apprezzato una vita in questo luogo perché non si trovava olio d’oliva e vino nemmeno a pagarli a caro prezzo.

Qui i cristiani vivevano decentemente, ma padre Giuseppe poté osservare cosa avveniva alla morte del Pascià locale: ogni funzionario da lui dipendente non veniva più ritenuto legittimato ad imporre la sua autorità, perciò i cristiani che prima venivano tutelati, si trovarono taglieggiati dalla popolazione locale, in particolare da alcuni reggimenti di giannizzeri e per paura di arrischiarsi fuori di casa i cattolici avevano praticamente abbandonato i loro edifici di culto. Anche padre Giuseppe, che soleva passeggiare la sera per le vie e i giardini, si era barricato in casa fino a quando un reparto di 4 o 5000 arabi arrivò a sedare i tumulti e ristabilire l’ordine.

 

  • In viaggio verso il Bengala

Il periodo della partenza verso le Indie era arrivato e i tre frati si divisero per ritrovarsi più avanti nel percorso, forse per evitare che un naufragio provocasse la morte di tutti i missionari, cosa che rendeva chiaro il presentimento del pericolo per il viaggio che li aspettava e che sarebbe durato mesi. Il primo a partire fu il palermitano, seguito 25 giorni dopo (il 2 settembre 1762) da Padre Giuseppe, che si imbarcò sull’Eufrate a bordo di una nave inglese comandata da un tal capitano Dichson (o Dikson), mentre frate Baldassarre si sarebbe imbarcato dopo di lui su una nave olandese. La nave su cui veleggiava il rovatese raggiunse dopo due giorni l’imbocco del Golfo Persico; appena entrati in quel mare sbarcarono per i commerci inglesi sull’isola di Baraharn, dove rimasero per 7 giorni ospiti del signore arabo locale che si arricchiva con la pesca delle perle.

Durante tutto il viaggio verso le indie padre Giuseppe annotò le straordinarie visioni e stranezze che aveva avuto modo di osservare, riportandone anche le descrizioni fantasiose che gli venivano fatte dei marinai: osservava i delfini giocare con la prua della nave, assisteva ad una parziale eclissi di sole e nei pressi dell’isola di Ceylon osservò una straordinaria colorazione delle nubi che assumevano intense tonalità di verde, miste a giallo e vermiglio, che gli inglesi spiegavano esser originate dai vasti incendi che gli olandesi appiccavano alle loro piantagioni di spezie sull’isola, sostenendo che questi bruciassero gran parte dei raccolti di cannella, noce moscata e garofani per poter mantenere alti i prezzi di queste mercanzie esportate in Europa. Padre Giuseppe non cascò in questa diceria, convinto che dovesse essere un evento naturale dovuto alla rifrazione della luce, ma questa convinzione dei marinai inglesi la dice lunga su quanto fosse facile anche in passato lasciarsi affascinare da teorie “complottiste”. L’esperienza del viaggio per mare del frate non si concluse qui:

Fuoco di S. ElmoRaffigurazione dei fuochi di S. Elmo

«Ho veduto ancora una notte sul terminar di una principiata tempesta, quel pezzo di fuoco apparente appeso vicino alla gabbia superiore del trinchetto [l’albero di trinchetto, NdA] il quale è chiamato dagli inglesi e portoghesi “Corpo Santo” e dai francesi “S. Elmo”, del qual fuoco apparente si leggono e si sentono tanti pregiudizi e frottole. Ma io lo suppongo una cosa naturale».

Anche in presenza del fuoco di S. Elmo, generato dall’elettricità statica dell’atmosfera e all’epoca non ancora spiegato, emerge l’osservazione scientifica del rovatese che non si lascia abbindolare dalle superstiziose supposizioni cui i marinai sembravano particolarmente legati. Nell’Oceano Indiano incontrarono anche due trombe marine, distanti circa un miglio dalla nave:

«L’acqua innalzata e sostenuta in aria dal vortice sembra una lunga e densa nube, […] se questo sione [monsone, termine usato da lui per indicare il fenomeno, NdA] è grande e si forma vicina alla nave (che Iddio ne preservi sempre tutti), gira e raggira e l’affonda».

 

Tromba marina

 

Rimase stupito da ciò che osservava, stupito come un bambino alla vista di cose che dalla sua Brescia non avrebbe mai saputo immaginare; oltre ai delfini e altri grossi pesci di cui faticava a comprendere l’identità, raccontò anche dei pesci volanti:

«Dei pesci non ho veduta nessuna cosa singolare, se non quella del pesce che vola. Veramente la provvidenza del Signore è ammirabile in tutte le sue operazioni, che quei pesci partecipano della razza degli uccelli è verissimo. […] Il loro volo è come un tiro d’archibugio al più»

Dopo tutto ciò, cosa poteva mancare nei mari di Sandokan?!

«Un giorno, quando eravamo vicini alle coste del Malabar, si vide una nave, più piccola però della nostra, la quale veniva a dirittura verso la nostra prora. Il capitano e i piloti sospettarono subito che fosse una nave della nazione di Maloane, che sono i più famosi ladroni del Malabar, i quali non hanno nessuna pace, né tregua con qualsiasi nazione europea, e sono molto audaci e inumani. […] Con gran prestezza prepararono gli archibugi, pistole, sciabole sfoderate, e d’ogni sorte d’armi, e massime i cannoni con copiose cariche, massime a mitraglia. […] era già pervenuta quella nave al lato destro della nostra, in distanza un solo tiro d’archibugio, ed allora si osservò che aveva nella sua poppa la bandiera portoghese. Ma si dubitò che quella fosse bandiera finta, perché appena contrapassò, quella girò il bordo e stette così bordeggiando per un poco di tempo. Forse non si arrischiò a dichiararsi nemica, perché la nostra nave era più grossa e ben preparata»

Per assurdo la loro nave non subì l’attacco dei pirati, ma fu presa di mira da una salva di cannone proprio da una nave da guerra inglese che sottopose all’alt quella su cui viaggiava padre Giuseppe. Furono bloccati e sottoposti ad ispezione dalla Marina Britannica poiché questi erano in cerca di tre navi inglesi che erano state viste a girovagare con bandiera olandese, forse rubate e usate per pirateria.

Ai primi di novembre la nave si avvicinava all’entrata del Golfo del Bengala passando la punta di Ceylon, temuta per le forti correnti tanto quanto il Capo di Buona Speranza. Questo passaggio andò bene, ma la seguente parte del viaggio fu così burrascosa che il mare non gli era mai parso così grosso, con le onde che superavano di due volte l’altezza della nave e il frate lasciò intendere nelle sue lettere quanto sia stato male di stomaco in quei giorni, terminati i quali arrivarono finalmente all’imboccatura del Gange e da lì a Calcutta per il 18 dicembre. Salutato con molti onori dagli ufficiali inglesi, padre Giuseppe partiva immediatamente per Chandannagar, dove arrivò il 23 al primo ospizio dei cappuccini della sua missione. Il frate notò immediatamente quanto la città fosse carina, con gli edifici in stile europeo ma in rovina, perché solo pochi anni prima la marina inglese l’aveva strappata ai francesi (siamo nel pieno della Guerra dei Sette Anni, la prima guerra nella storia combattuta su più continenti e Chandannagar era stata il centro amministrativo della Compagnia delle Indie Francese).

Capture_de_Chandernagor_en_1757_par_la_Royal_Navy

La cattura del posto di Chandernagor nel 1757 da parte della Royal Navy

Padre Giuseppe riferì pure che al suo arrivo la città aveva da poco passato una strana pestilenza e che il suo compagno palermitano, giunto un mese e mezzo prima di lui, era stato contagiato ed era ancora affetto da una febbre maligna. Purtroppo una brutta notizia sarebbe giunta poco dopo: seppe che frate Baldassarre, che aveva affrontato il viaggio sulla nave olandese, morì appena toccata terra a Bombay.

Dopo la sosta durante le festività natalizie, padre Giuseppe e il suo superstite compagno Giuseppe Alfonso dovevano ripartire. Il frate diceva, in una successiva lettera, che in quella occasione aveva affidato una comunicazione ad un frate toscano che stava ripartendo per rientrare a casa, ma sappiamo che la missiva non arrivò mai, perché frate Paolo da Firenze annegò nel golfo Persico. Comunque i due compagni partirono il 2 febbraio 1763 alla volta di Patna, nel cuore dell’India, che raggiunsero il 6 marzo e dove furono accolti dal confratello padre Giovanni da Brescia (missionario nel Tibet-Hindustan dal 1752 al 1770, anno in cui morì a Patna).

«Ed io e lui in particolare provassimo quel gran contento che si può immaginare nel vedersi e abbracciarsi due religiosi conoscenti dopo tanti anni in paesi così lontani e stranieri»

  • Il Grande Nababbo e la seconda guerra del Bengala

Mir_Qasim

Il nawab Mir Qasim con le danzatrici della sua corte

Padre Giovanni Alfonso fu spedito a Bettiah, dove si trova un caposaldo dei cappuccini sulla via per il Nepal ai piedi dell’Himalaya, padre Giuseppe invece rimase a Patna diversi mesi per apprendere le nozioni sulla lingua indostana e sui costumi delle genti locali, sui loro riti e superstizioni, mentre attorno a loro stava per accadere qualcosa di eccezionale. Voci correvano qua e là, sospetti si muovevano attorno alla figura di quello che padre Giuseppe chiama il “Grande Nababbo”. Il nawab Mir Qasim era il governatore locale che gli inglesi della Compagnia delle Indie avevano intronizzato per governare alcune provincie interne dell’India sotto la giurisdizione della Corona. Il nawab stava facendo il doppio gioco continuando ad assoldare reclute, segretamente sostenuto dall’Impero Moghul. Gli inglesi percepirono qualcosa e inviarono a Monghev, vicino a Patna, degli ispettori per capire cosa stesse bollendo in pentola. Gli ispettori della Compagnia dimorarono presso il nawab per diversi giorni per ritornarsene poi a Calcutta, ma non raggiunsero mai la loro destinazione:

«Trucidarono la maggior parte di quell’equipaggio coi loro principali signori, le teste dei quali furono portate e presentate al Nababbo, il quale gettandole per terra e coi piedi conculcandole, dimostrò quali fossero i sentimenti del suo cuore verso tale nazione».

Ad un ordine prestabilito il nawab fece scoppiare la rivolta in tutti i centri della provincia del Bengala, anche a Patna, che dopo Calcutta aveva il maggior contingente di uomini: 400 soldati e 2000 sipai (o sepoy, i militari indigeni assoldati dalla Compagnia delle Indie). La notte del 25 giugno la città di Patna, che era già in subbuglio, fu assaltata dall’esercito del nawab anche con l’uso delle artiglierie.

«Arrivate le truppe avanti al nostro ospizio fecero, senza ordine degli ufficiali una salva di 50 e più archibugiate contro di essa (perché?) fracassandoci le finestre e bucando le pareti dentro e fuori, e causando non poco timore a noi che per la grazia di Dio fummo preservati da quelli inaspettati colpi».

Subito dopo padre Giuseppe assistette al contrattacco inglese, che ebbe la meglio sugli assalitori mettendoli in fuga, nonostante questi avessero circa 40.000 uomini. Il frate riferisce però che il comandante inglese non fu molto accorto e non seppe mantenere il frutto della vittoria, dopo aver ricacciato gli indiani fuori dalla città. I sepoy inglesi iniziarono a saccheggiare le case dei rivoltosi, incuranti del fatto che un comandante armeno stava conducendo un nuovo attacco per conto del nawab, grazie al quale verso mezzogiorno riprese la città. I cappuccini pensavano di aver scampato il pericolo quando appunto, sentendo riavvicinarsi le scariche di fucile, sentivano urlare per le strare “Evviva il Nababbo! Evviva il Nababbo!”.

«Di fatto alle ore tre incirca dopo il mezzogiorno, avendo già fugate tutte le truppe inglesi, […] si avventarono contro la nostra casa, e uno dei più arditi principiò a tirare un colpo di fucile dentro una nostra finestra. All’udire questo primo colpo, noi ci rifugiammo in chiesa raccomandando l’anima nostra a Dio, e offrendogli la nostra vita, che prevedevamo in breve di esserci levata. Le truppe del Nababbo e il popolaccio s’erano già affollati attorno alla nostra casa tirando continui colpi di fucile. In questo mentre passando il fratello del Nababbo di Patna, ordinò di luttare [parola arcaica: saccheggiare, NdA] la nostra casa sul pretesto che in essa ci fossino rifugiati alcuni inglesi, ma nel cuore col disegno d’impossessarsi degli effetti della nostra casa. […] Noi intanto dalla chiesa passassimo alla sacrestia e adempiendo a quegli ultimi uffizi della pietà cristiana per quanto lo permettevano le circostanze, ci animavamo vicendevolmente a soffrire volentieri per amore del Signore la morte che ogni momento vedevamo imminente sopra di noi. Poco tardarono quegli avidi barbari ad entrare nella chiesa, e dalla chiesa nella sacrestia. Al vederci tutti e tre in ginocchioni, invece di aver compassione di noi, il primo saluto che ci davano era di prontare o l’archibugio contro di noi per ucciderci, o la sciabola nuda per farci in pezzi, o la baionetta in canna per infilzarci […] Ma vedendo che noi non opponevamo a loro disegno alcuno, ognuno si sforzava di trasportare i migliori effetti, che poteva avere, […] dandoci continua morte senza farci morire. Terminato lo spoglio dei paramenti sacri, e di tutto ciò che concerne il culto del Signore, non avendo più in che sfogare la loro insaziabilità, ci spogliarono ancora degli abiti, o per meglio dire ce li strapparono di dosso, non ostante le nostre suppliche a cagione delle nudità molto indecente allo stato nostro. Ci lasciarono però le mutande per tener coperta la vergogna, compassione che non hanno avuta cogli altri poveri europiani. Restati per qualche tempo così ignudi, s’immagini con quale nostro rossore, sempre in mezzo alle minaccie e ingiurie […] sopravvenne uno o due fieri soldati e vedendo che non gli restava altre con che sfogare la loro rabbia che col farci a pezzi, tentarono furibondi di scaricare più colpi di sciabola sopra di noi, ma per nostra sorte alcuni altri soldati coi loro scudi si opposero […] dicendogli che non c’era l’ordine del Nababbo per ucciderci».

Il frate riferisce che la loro miserevole condizione in quella sacrestia durò un’ora, poi si convinsero a tentare di uscire per strada per rifugiarsi nella loggia olandese, ma usciti dalla chiesa, mentre il popolo entrava e usciva dalla loro casa portando via anche i mobili, alcuni si avventarono su di loro con nuove minacce, al che riuscirono a convincerli a portarli alla presenza del nawab affinché avrebbe deciso lui della loro sorte.

«Il Nababbo si trovava […] distante un buon mezzo miglio. In tutto questo tratto di strada del gran bazzar c’erano una tale folla di popolaccio e di truppe che appena potevamo passare, molto più perché ci seguitava una grande ciurmaglia di gente curiosa di vedere l’esito sopra di noi, che eravamo divenuti un pubblico spettacolo. Gli occhi di tutti erano intenti sopra di noi: le ingiurie, le beffe, gli insulti erano continui, perché ognuno pareva facesse a gara a chi poteva dircene di più. Altri non contenti di questo tentavano chi colle sciabole, chi colli coltelli di sfogare il loro livore sopra di noi […] non fu possibile preservarci da tutti i colpi che coi bastoni o coi fucili inumanamente furono scaricati sopra di noi. Si aggiunga la circostanza che era il tempo delle piogge e che il fango ci arrivava alla metà della gamba. […] Arrivati finalmente alla presenza del Nababbo tutto da cavalli e cavalleria attorniato, al vedere il miserando spettacolo che rappresentavamo, si mosse a compassione di noi e ci dichiarò che non era stata sua intenzione che ci avessero fatto divenire a un sì lacrimevole stato».

I tre disgraziati chiesero al nawab una scorta per ritornare a casa, ma non furono esauditi perché il suo esercito si stava per dirigere ad altra città ed ordinò che fossero condotti a Keler, presso la sua residenza, con nuova vergogna e pericolo.

«E per compimento delle nostre sciagure ci presagivano la morte, massime ogni qualvolta che passavamo sopra o vicino a qualche cadavere europiano, vari dei quali erano dispersi per la strada e calpestati (ove restarono per più giorni pascolo dei cani, horrendum!) dicendoci che si sarebbe fatto il simile ancora di noi».

Anche al palazzo del nawab, dove si erano convinti che avrebbero realmente deciso della loro sorte, rimasero nudi per altre due ore, sempre in balia delle canaglie e soprattutto del fratello di Qasim che minacciò di impalarli. Per loro fortuna passò a palazzo il comandante armeno, Markat, che vedendoli nudi e in pietoso stato li abbracciò e si rivolse con franchezza al nawab dicendogli che aveva fatto male a permettere che i padri fossero stati trattati a quella maniera. Dopo aver ottenuto la loro liberazione, l’ufficiale armeno comandò a sette soldati di scortare i padri nella loro casa e di vigilare sulla loro sicurezza. Quando rientrarono nel loro ospizio verso la mezzanotte i frati trovarono tutto devastato, ma furono rinfrancati dalla compassione dei cristiani che abitavano la città.

«Vari cristiani ancora, che seppero il nostro ritorno all’ospizio, vennero a visitarci e vedendoci in quella estrema necessità ridotti, chi ci diede qualche capezzale, chi qualche coperta, chi la lettiera all’uso del paese tanto per non restare quella notte sulla nuda terra, perché il nostro ospizio era stato luttato interamente e non c’era restato nulla».

Padre Giuseppe descrive l’esito della razzia: dopo i paramenti sacri furono derubati di tutta la mobilia, dei vestiti, di tutto il vino e delle medicine, anche le porte, le finestre e i legni delle pareti asportate con rovina degli stessi muri in pietra e della scala, alla quale asportarono i gradini in pietra. Trafugarono perfino i chiodi dai muri, i gangheri delle imposte e le “immonde” tavole dei necessari (il sedile della latrina). Il frate continua poi nella descrizione della guerra, narrando della successiva sconfitta subita dal nawab che lo costrinse a ripiegare e passare nuovamente per Patna, occasione in cui per timore lui e i confratelli scelsero di rifugiarsi presso la loggia degli olandesi. Infatti, essendo vicino alla sconfitta definitiva, il nawab fece massacrare tutti gli inglesi che trovò in città e il 20 ottobre comparve all’orizzonte l’armata britannica, che conquistò Patna il 6 novembre in uno scontro che causò migliaia di morti.

  • Partenza per il Nepal

Il 18 dicembre il prefetto apostolico decise di andare con padre Giuseppe per il Nepal. Viaggiando lungo il fiume Gandak scorse numerosi coccodrilli, enormi, con forma inusuale del muso a becco d’anatra, che si nutrivano dei numerosi cadaveri d’uomo affidati alle acque di questo fiume come del Gange. Dopo sei giorni di viaggio giunse a Bettiah presso il convento dei cappuccini dove poté riabbracciare il compagno palermitano spedito qui già nella scorsa primavera, scoprendo che anche padre Giovanni Alfonso e gli altri compagni avevano subito le stesse loro sorti sotto le milizie del nawab Mir Qasim.

Bettiah era una città con case e mura di cinta realizzate di fango ad eccezione del loro convento e della casa del re che vi abitava. Una città adagiata tra fertili pianure ai piedi dell’imponente catena dell’Himalaya, circondata da una vegetazione di arbusti alti un uomo dove si annidavano numerosissime tigri, i cui tremendi versi erano ben riconoscibili di notte e mettevano spavento.

tigre

«A cagione della guerra […] le tigri si sono stabilite qui in maggiore quantità, e ardimentose entrano fino nella città stessa. Quanto sia terribile il miagolare e quanta paurosa commozione faccia nel sangue di chi lo sente, io non ce lo so descrivere: so bene che in tutto il tempo che sono stato in Bettiah, ogni qualvolta di notte o per meglio dire ogni notte le sentivo gridare, mi andava molto lontano il sonno […]. Una sera mentre ero uscito dalla città per passeggiare insieme con un altro padre, appena ebbi attraversato un campo […] si udì una spaventevole tigre dalla parte dove qualche minuto prima eravamo, quale con molta lestezza, e con non minore paura ci fece rientrare in città […]. Una mattina, mentre ero in Bettiah, e c’era l’aria un poco nebbiosa, fu sentita una tigre in poca distanza dall’ospizio dalla parte di mezzogiorno, quale si portò via un cavallo che ivi pascolava, e pochi giorni avanti avevano divorate 14 bufale»

Nei boschi di questa zona osservò anche tre tipi di piante enormi, così grandi da non averne viste di simili in Europa:

«Una sorte è quella che fa i tamarindi, che è una bacca con grani come fagioli, alquanto più grandi dei nostrali, che si usano in medicina e in mancanza di limoni per far le vivande. L’altra fa una specie di cotone molle e finissimo, quale però non si può travagliare, ma serve solo per materassi, capezzali, ecc. [si tratta del Bombax hectaphillum, NdA]. La terza sorte, che ancora è la più sterminata in grandezza e della quale io non so il nome, fa le foglie quasi simili a quelle del pioppo, il cui legno per esser molto dolce e floscio, non usano né per travi, né per manifatture. […] tutti i rami mandano giù dai loro nodi molte radici, quali restano così pensili in aria, e prestamente s’allungano finché arrivano in terra, nel quale penetrando s’impiantano ben bene [si tratta del Ficus indica] […] Una sera ala metà della strada di Bettiah mi sono preso la soddisfazione di misurare una di queste piante sotto la quale dovevamo albergare quella notte, girai d’attorno al fusto e lo trovai di 40 passi geometrici».

Passate in questa località le feste natalizie dovettero attendere fino al 15 gennaio 1764 per ripartire, al fine di avere il favore del plenilunio nel momento più pericoloso del viaggio. A lui e al prefetto si unì anche padre Michelangelo da Tabiago e dopo pochi giorni di cammino incontrarono un primo intoppo: le armate gurkha, famoso popolo guerriero di questa zona, stavano assediando una piccola fortezza che controllava la strada attraverso la quale sarebbero dovuti passare. Assicurato loro il passaggio dal comandante di quei soldati iniziarono ad addentrarsi nelle valli ricoperte da una foltissima giungla, impenetrabile al di fuori dei sentieri e nella quale erano costanti e ben visibili le tracce delle tigri: orme ed escrementi erano dappertutto.

«Essendomi scostato dalla strada con l’altro padre compagno, quanto un tiro di sasso per ammazzare i pavoni, dei quali ce n’era buon numero, si trovassimo in mezzo alle tane delle tigri, nelle quali viddi le ossa spolpate di fresco, ma per la paura non mi inoltrai a cercare i pavoni, e in quattro salti ritornai sulla strada insieme con gli altri»

Ma le tigri non erano le uniche belve delle quali avere paura:

«Questa mane fummo liberati dal pericolo di due orsi, quali se ne stavano giusto in mezzo del torrente in poca distanza per dove dovemmo passare. Saltarono questi sulla riva tutta folta di piante, canne, tralci, ecc. intanto che passammo; ma stimammo bene non scaricargli archibugiate coi fucili che avevamo pronti nelle mani per timore di incorrere in qualche maggior pericolo in caso che fosser solamente feriti».

Di notte si dormiva sulla terra con un tappeto come letto, qualcuno era sempre di veglia e ogni tanto si tiravano delle fucilate per allontanare le fiere. Attraverso queste valli il frate descrive la presenza di elefanti e rinoceronti che però non incontrarono e della vegetazione così fitta che ad un certo punto, per trovare sentiero attraverso le sassaie, dovettero per forza guazzare coi piedi nel letto di un fiume per lunghi tratti. Si camminava nell’acqua bassa ma con la corrente forte e fredda, su sassi melmosi e taglienti che a sera provocava gonfiore dolorante ai piedi.

Giunsero attraverso sentieri vertiginosi al castello di Bimpiti, che ricorda somigliare per posizione a “Castiglion Bergamasco” (Castione Presolana). Da qui affrontarono altri giorni di cammino attraverso sentieri ripidi e scoscesi, guazzando nuovamente per le acque gelide di un altro fiume (padre Giuseppe negli anni successivi soffrirà molto di dolori a piedi e caviglie, convinto che la causa di questo malessere fossero questi continui spostamenti nelle gelide acque dei torrenti himalayani). Le fiere scomparvero e l’ambiente era ora popolato perlopiù da numerosissime scimmie dalla lunga coda. Inerpicandosi lungo le vallate di questi luoghi aumentavano anche i precipizi e alle volte i fiumi non consentivano il passaggio che attraverso i ponti tibetani e sentieri molto esposti nel vuoto.

ponte-tibetano

«Per descrivergli questo ponte basti dirgli che fa orrore il solo vederlo stando abbasso nel torrente asciutto, e mi pare che mai mi arrischierei a passarlo se vi transitasse sopra nello stesso tempo qualche altra persona e se non premettessi prima un atto di contrizione raccomandando l’anima mia al Signore, perché oltre all’essere molto alto, sarà lungo più di 30 passi geometrici e largo solo un buon mezzo cubito incirca e se ne resta così tutto pensile in aria senza alcun sostegno di sorta. Ma questo è niente, quello che lo rende terribile è la materia dalla quale è formato, quale altro non è che canne d’india attorcigliate, come i legacci delle nostre fascine, e queste ancora malamente connesse e largamente intessute. Da questo può arguire che questo ponte fa orrore al solo vederlo. […] Indi si prosegue per 3 o 4 miglia a camminare sul fianco destro di esso monte per un sentiero che non sarà largo più di un palmo e mezzo e in alcuni luoghi così diroccato che fa una grande impressione per chi deve passare, massime per l’orrido precipizio che resta alla destra».

Prithvi_Narayan_ShahPrithvi Narayan Shah, primo re del Nepal

Il 18 febbraio, dopo aver percorso un ultimo tratto senza viveri, arrivarono finalmente a Navakot dove risiedeva il re dei gurkha. Chiesero udienza al re per ottenere da lui i permessi per entrare in Nepal. Su richiesta del re dovettero curare un bramino della casta più elevata che aveva un tumore alla guancia, poi dovettero pazientare molto affinché gli fossero concessi i passaporti e alla fine li ottennero, ma con la pretesa che uno di loro restasse alla corte del re, perché prestasse cura a suo figlio e ad altre personalità della corte. Padre Michelangelo restò dai gurkha mentre padre Giuseppe e il prefetto proseguirono per il Nepal raggiungendo l’ospizio dei cappuccini a Katmandu il 4 marzo.

Dopo tre anni e mezzo dalla sua partenza da Roma, padre Giuseppe era finalmente giunto alla sede principale della sua missione e per la fatica cagionata da quest’ultima parte del viaggio fu costretto a letto tre settimane con febbre e dolori.

 

Durante il suo soggiorno in Nepal gli pervenne notizia che i loro confratelli dovettero fuggire a Calcutta poiché il nawab ribelle, unitosi con l’imperatore Moghul, mosse nuovamente contro Patna con un’armata di 300mila uomini. I frati furono scossi per lungo tempo da grande preoccupazione perché non sapevano se i confratelli fossero riusciti a mettersi in salvo o se fossero periti nei massacri, salvo poi venire a conoscenza dell’esito della guerra in cui gli inglesi, decisamente inferiori nel numero, avevano trionfato. Ciò però non mitigava i timori di padre Giuseppe poiché anche loro si trovavano nel bel mezzo di un conflitto: l’unificazione armata dei tre regni del Nepal ad opera del re che avevano conosciuto a Navakot, Prithvi Narayan Shah, signore del popolo gurkha che nel 1768 divenne primo re del Nepal. Katmandu era proprio la roccaforte dei suoi nemici e i frati temevano di rimanere coinvolti in una guerra anche in questo posto sperduto e così lontano da casa. Di Katmandu ne descrive la bellezza soprattutto delle pagode e dei palazzi nobiliari, delle fontane e dei costumi ricchi di superstizioni e rituali in onore ai loro dèi. Qui padre Giuseppe avrebbe studiato le lingue locali, preparandosi per la sua missione evangelica e per la sua meta più lontana: Lasha in Tibet, dove sarebbe andato negli anni successivi.

Katmandu

Le pagode di Katmandu

  • Conclusione

Padre Giuseppe sarebbe diventato Prefetto Apostolico per questa missione, affrontando altri pericoli: la guerra, la carestia, la cacciata di tutti i religiosi stranieri dal Tibet; scontrandosi con i dispetti dei potenti locali che gli impedivano di predicare e con gli stessi appartenenti alla fede cattolica, in particolare con i Gesuiti. Si prodigò moltissimo per la sua missione e per descrivere con precisione le abitudini e le religioni locali, in modo da poter inviare a Roma quante più informazioni possibili, ricevendo scarsissime notizie da casa, fatto che forse gli causava maggior sofferenza. Un legame con la sua terra natia (che non mancò mai di seguirlo nei suoi viaggi) riemerse prepotente quando, in una lettera del 1772, chiese al suo maestro padre Viatore da Coccaglio di dargli informazione di una notizia che lo aveva raggiunto fin lì: la grave esplosione accaduta a Brescia. Un evento capitato nel 1769 e giunto con gli ovvi ritardi alle sue orecchie, fino al tetto del mondo.

«Intesi una confusa notizia di essere stata quasi del tutto rovinata da un incendio di polvere l’infelice città di Brescia. Ma siccome non ho potuto avere un’intera notizia di quell’incendio, così non ho potuto arguire nemmeno se li miei parenti che sono in Brescia sieno restati morti o preservati. Il cuore però mi fa molto temere».

Padre Giuseppe e gli altri cappuccini avevano operato in maniera zelante in quei paesi anche se quest’esperienza, che fu positiva in India, si concluse sostanzialmente con un insuccesso in Nepal e Tibet a causa delle reazioni di chiusura che le autorità locali attuarono sulla fine dell’operato del nostro frate. Sicuramente tra le cause ci furono anche diverse mancanze nell’azione dei frati, tra cui certamente la difficoltà nell’ordinare sacerdoti indigeni, ma dobbiamo anche tener presente che, nella zona del loro operato, le autorità coloniali inglesi che si stavano espandendo non davano supporto alle missioni cattoliche essendo loro di religione protestante. Leggendo le lettere del suo viaggio, possiamo intendere quanta fede muovesse l’entusiasmo di questi cappuccini e chi si dedicasse a leggere le successive missive che descrivono l’operato missionario di padre Giuseppe, noterà che in effetti il frate rovatese fece tutto quello che umanamente era possibile compiere, dedicandosi completamente alla missione evangelica e morendo a Patna il 13 dicembre 1786. Sulla sua tomba si legge l’epigrafe:

«In omnibus vere filius Patris Nostri Serafici Sancti Francisci, vir integerrimus in omni probitate … Plures infideles ad ortodoxam fidem convertit»

  • L'articolo è presente nella sua forma originale nel sito dell'autore, che lo ha suddiviso in tre parti. Si ringrazia per l'autorizzazione a pubblicarlo anche in questa sede (31/05/2021)
  • Vietata la riproduzione senza autorizzazione dell'autore e /o citazione delle fonti. Grazie a tutti