Il Giardino Simbolico di Valsanzibio (PD)

Villa Barbarigo, Pizzoni Ardemani
(a cura di Marisa Uberti)
 
 
  • Inquadramento storico-geografico

I nostri due passi nel mistero li facciamo oggi in questo meraviglioso Giardino Simbolico pertinente situato nella piccola frazione di Valsanzibio nel comune di Galzignano Terme, provincia di Padova, nel territorio termale dell’area euganea (Parco Regionale dei Colli Euganei). Il toponimo “Valsanzibio” deriva da Val Sant’Eusebio (“Zibio”era il nomignolo popolare per il santo), valle da pesca che prende il nome dal Priorato di Sant’Eusebio che era situato sullo sperone orientale del Monte Orbieso, all’ingresso della valle omonima la quale era paludosa e usata, appunto, come luogo di pesca. 

Va però detto che in questa stessa area esisteva già nel XV secolo una dimora e anche un giardino. “Le notizie più antiche attorno al sito su cui sorge la villa risalgono alla metà del Quattrocento, allorché il padovano Giacomo Scrovegni vendette al veneziano Ludovico Contarini “di San Paternian” una gastaldia esistente in loco. In effetti, in una mappa del 1570 vi viene rappresenta una corte fortificata, proprietà di Pietro Testator Contarini. Già da qualche decennio le era annesso un giardino, citato nel 1539 in una lettera dall’astronomo Alessandro Piccolomini come locus amoenus, dilettevole; nello stesso periodo si ha anche notizia di una peschiera. Nel 1588 i Contarini cedettero il complesso a Piero Michiel e a Nicolò Ferro, che divenne il personaggio più importante per lo sviluppo della proprietà. Alla sua morte, nel 1619, lascia per testamento i beni in parte ai Barbarigo e in parte ai Michiel Barbarigo [1]. Questa informazione appare molto interessante; la villa, già esistente prima dei Barbarigo, fu da essi stessi rimaneggiata alla metà del XVII secolo. “La parte mediana è l’unica rimasta dell’insediamento precedente, che la vedeva isolata rispetto all’oratorio e mancante dei coronamenti timpanari[2]. Quando la peste nera scoppiò come un flagello in tutta Italia e in Europa (1630-31), Zuane Francesco Barbarigo si ritrovò vedovo perché la moglie, Lucrezia Lion, si era contagiata. Fu allora che il nobile decise di trasferirsi con il resto della famiglia a Valsanzibio e di fare un voto al Signore, chiedendo salva la vita per sé e i suoi figli; in cambio avrebbe fatto costruire un’ opera grandiosa per commemorare e glorificare la grandezza di Dio. La preghiera venne esaudita e nacque quindi il progetto, isolato tra la campagna e i boschi; quella che a prima vista potrebbe sembrare una delle innumerevoli ville patrizie sorte sulla riviera del Brenta, si connota invece come esempio unico in questo piccolo villaggio allora lambito dalle paludi. 

Dal 1619 al 1623 furono intrapresi i lavori del Giardino dell’asse Est-Ovest, mentre la sistemazione dell’asse Nord-Sud avvenne tra il 1664 e 1665 (ma completata in vari decenni, nel 1696). A portare avanti il progetto di Zuane Francesco Barbarigo pensarono i due figli, Gregorio (cardinale e vescovo) e Antonio (procuratore veneziano). In particolare si deve a Gregorio Barbarigo (1625-1697), cardinale e vescovo (santificato nel 1960), il progetto del Giardino Simbolico, in cui nulla è lasciato al caso e si qualifica come una Dimora Filosofale, in cui spiccano elementi allegorici della Grande Opera Alchemica in cui dal piombo si giunge all’oro, dalla condizione umana a quella divina, a patto che si entri in questo Giardino con intelletto, altrimenti – come tutti i giardini ermetici - resterà chiuso ai profani, ai quali non comunicherà nulla, se non la mera bellezza esteriore e la piacevolezza effimera e ludica. 

Gregorio Barbarigo volle che il giardino di Valsanzibio fosse monumentale emblema della via di perfezione che porta l’uomo dall’Errore alla Verità, dall’Ignoranza alla Rivelazione. Per adempiere a questa funzione, a partire dal 1644 fu incaricato il fontaniere pontificio e architetto Luigi Bernini, 1612- 1681 (fratello del più noto Gian Lorenzo) di creare un giardino impostato su un cardo (N-S) e un decumano (E-O), che si incrociano in un punto che è il centro del Giardino (dov’è collocata l’ottagonale Fontana della Pila). La croce, tra l’altro, è geroglifico del crogiolo alchemico. In questo spazio agreste, in cui albergavano già alcune specie di piante, furono installati 33 punti d’acqua (“Sistema idrico di Bernini”, 1665). Vi era bisogno di 600/650 l di acqua al minuto e il progettista attinse a sette fonti naturali sgorganti tra i 5 e i 60 m delle colline della Valsanzibio. L’acqua, per caduta, veniva convogliata nel giardino e smistata ingegnosamente per attivare i 33 punti d’acqua. Al giorno d’oggi alcune sorgenti si sono esaurite e alcune hanno una portata inferiore al necessario, pertanto il sistema del Bernini è stato integrato con pompe elettriche che permettono il riciclo delle acque, anche per un doveroso risparmio idrico. Attualmente tutti e 33 i punti d’acqua del progetto originario sono tornati ad essere attivi e zampillanti, grazie all’impegno degli attuali proprietari, la famiglia Pizzoni Ardemani. 

  • Le famiglie

Nel tempo si sono succedute varie casate nella villa: dopo i Barbarigo, la cui casata si estinse dopo sei generazioni con la morte di Contarina Barbarigo (1804), la quale nominò suo erede il cugino Marco Antonio Michiel, seguirono nel 1835 i conti Martinengo da Barco (bresciani), nei primi del Novecento i Conti Donà delle Rose e dal 1929 i nobili Pizzoni dei Conti Ardemani. Durante la seconda guerra mondiale il sito subì l’occupazione militare ma le amorevoli cure dei proprietari hanno salvato il Giardino che, nel 2003, si è qualificato al primo posto nel concorso “Il più bel giardino d’Italia” indetto dalla statunitense Briggs e Stratton, superando una quarantina di prestigiosi giardini pubblici e privati italiani. Nel 2007  si è classificato al terzo posto a livello europeo.

  • Il Percorso di purificazione

Il giardino, il cui disegno originario è fortunatamente visibile in un dipinto a olio che ne descrive tutto l’assetto, è un tracciato apparentemente semplice: un rettangolo di 320 x 240 metri così perfettamente articolato in una rete viaria a scacchiera, ventiquattro compartimenti […][3]. Per ottenere la trasmutazione e  la “pietra filosofale”, che rende incorruttibili i metalli e purificato l’Uomo rendendolo immortale, l’individuo deve effettuare un cammino a tappe, superando delle prove e crescendo in consapevolezza, esattamente come il compost - la materia indifferenziata iniziale degli alchimisti - deve passare attraverso diverse fasi (Nigredo, Albedo, Citrinitas e Rubedo) per raggiungere il massimo grado di perfezione. L’Uomo, impuro e perfettibile, nel Giardino di Valsanzibio ha la possibilità di  intraprendere un cammino di metamorfosi che deve essere sia interiore che fisico. Ma per fare questo ha bisogno del donum dei (il dono di Dio, senza il quale nulla è possibile) e di seguire gli insegnamenti di Madre Natura. Il percorso è scandito dai seguenti punti:

I. Paludo e Portale di Diana

II. Peschiera dei Fiumi o Bagno di Diana

III. Fontana dell’Iride o dell’Arcobaleno

IV. Peschiera dei Venti

V. Fontana della Pila

VI. Labirinto di bossi secolari

VII. Grotta dell’Eremita e Fonte dell’Eremita

VIII. Isola dei Conigli

IX. Monumento al Tempo

X. Fontana del Putto e scherzi d’acqua

XI. Scalea del Sonetto e Fontanelle delle Lonze

XII. Piazzale delle Rivelazioni e Fontana dell’Estasi, del Fungo o delle Rivelazioni

Il percorso di purificazione finisce sul Piazzale delle Rivelazioni. Sappiamo che vi sono altre statue rispetto a quelle che abbiamo incontrato e un’esedra dietro la villa, un tempo ornata di statue nelle nicchie (inaccessibile al pubblico); non possiamo sapere, pertanto, se il percorso fosse più ampio, se proseguisse per i soli proprietari della villa e/o per ospiti particolari.

E’ chiaro che il Giardino fu creato in un’epoca diversa dalla nostra, per una committenza attenta a ogni particolare e “iniziata” a  certi temi filosofici. Oggi chi visita il giardino lo fa per curiosità, soprattutto, per godere del bello e dell’esoterico, ma in noi (e non solo) c’è comunque l’interesse di capire, di osservare, di cogliere dettagli che alle visite frettolose sfuggono. Si può restare all’interno del Giardino in autonomia e quanto si desidera; è previsto un biglietto di ingresso, maggiorato se si effettuano visite guidate. Un vantaggio in più di avere una guida è che si può accedere al Piazzale delle Rivelazioni (normalmente interdetto al pubblico).

Lungo il tragitto incontreremo molte statue: in totale vi sono oltre una sessantina di statue (secondo alcune fonti settanta) nel giardino, scolpite in pietra d’Istria, una parte delle quali è opera di un artista tedesco, Heinrich Meyring, italianizzato in Enrico Merengo (+ 1723).

  • Pare che in realtà il Meyring abbia realizzato diciotto statue; e le altre? Nel portale dell’ Irvv (Istituto Regionale delle Ville Venete) si fanno i nomi di Mastro Pio, Mastro Domenico e Mastro Zuane di Monselice; le murature, invece, furono affidate ad Andrea, “muraro di Valsanzibio”, i lavori in ferro a Domenico Rizzo e quelli in legno al falegname Francesco Chiodo (tutti di  Monselice). Nel sito ufficiale[4] del Giardino si attribuisce al Merengo “gran parte” delle statue, tra le quali quella del Tempo, Endimione, Argo, Tifeo e Polifemo. Tuttavia noi liberamente ci siamo chiesti se alcune di queste statue non fossero già presenti nel giardino cinquecentesco (che sappiamo esisteva nel 1539, sebbene assai diverso ma definito “ameno e dilettevole”) e opportunamente riutilizzate in quello voluto dai nuovi proprietari.

Faremo attenzione ai distici[5] presenti alla base di ciascuna statua, che ci aiuteranno ad identificarle grazie a significativi motti i quali, sicuramente, avevano un legame con le operazioni alchemiche messe in atto dai neofiti. Teniamo presente che ogni tentativo di interpretazione del “Soggetto dei Saggi” è arduo e che i termini che usiamo correntemente non hanno nulla in comune con quelli (criptici) degli alchimisti (ad esempio Acqua è uno dei Quattro Elementi degli antichi ma non ha nulla in comune con l’acqua volgare). Cerchiamo con umiltà di fare la nostra visita e imparare qualcosa, rimandando il lettore alla sezione Il Linguaggio dell’Alchimia nel nostro sito.

  • Chi fu l’autore dei distici? E’ rimasto ignoto, così come quello del sonetto (che vedremo a tempo debito) seppure non si escluda che l’autore possa essere stato il Barbarigo stesso. In ogni caso i distici potrebbero essere stati suggeriti da un personaggio imparentato con i Barbarigo, discendente da quel Piero Michiel che nel 1588 acquisì la tenuta insieme a Nicolò Ferro; da questi il complesso passò, per testamento, in parte ai Barbarigo e in parte ai Michiel. Pensiamo al discendente di questa casata, Pietro Michiel anche lui (1603-1651), che fu un rinomato poeta e letterato di stretta osservanza marinista (stile di letteratura barocca usato in poesia  e nel dramma in versi, che si caratterizzava per una tendenza all’arguzia e all’ornato), membro dell’Accademia degli Incogniti che aveva sede a Venezia.  Era già morto quando venne realizzata la seconda parte del Giardino (asse N-S) ma potrebbe avere avuto un ruolo in precedenza?

La partenza del percorso è il monumentale Portale di Diana, che affaccia sul residuo dell’antica palude (che si estendeva dai Colli Euganei fino alla laguna di Venezia) e per questo chiamato “paludo”: è uno specchio d’acqua dal significato coerente con l’inizio del cammino (la putrefatio alchemica o opera al nero/nigredo). Un tempo si arrivava qui in barca da Venezia; si raggiungeva dapprima Battaglia Terme, si cambiava imbarcazione “salendo su di una specie di chiatta di poco pescaggio, adatta per attraversare le paludi, e, spinti da inservienti con appositi bastoni, si arrivava a Valsanzibio. Di questa distesa paludosa, bonificata nel 1850 con l’avvento delle idrovore a vapore, ciò che resta è il piccolo stagno di fronte al Portale di Diana, il Paludo[6]. Qui si attraccava l’imbarcazione e si entrava nel Padiglione di Diana. La splendida porta scolpita rappresentava il biglietto da visita dei Barbarigo, di cui campeggiano due stemmi araldici su pilastri laterali immersi nell’acqua; gli scudi sono tenuti da due figure abbigliate con una corta tunica. Contestualmente allo status sociale ostentato, vi è però la duplice lettura di cui si sta trattando. Il portale è decorato con mascheroni, bassorilievi e 13 statue in pietra d’Istria tutte scolpite dallo scultore Enrico Merengo. Vediamo di riconoscerne alcune e, con l’aiuto della storiografia ufficiale, leggere i distici sui loro basamenti. Oggi nessun visitatore può entrare da questa via: l’acqua impedisce il passaggio; i visitatori devono accedere dall’ingresso pedonale a sinistra (ben indicato), dov’è situata la biglietteria. E’ il punto più in ombra di tutto il complesso, il più freddo e umido. Siamo a nord e qui, un tempo, era posizionata la ghiacciaia (giassara), alla base di un’antica torre con orologio che crollò alla fine del 1700. Le pareti spesse e la posizione facevano sì che le derrate alimentari conservate nella ghiacciaia si conservassero anche in piena estate. Il ghiaccio veniva ricavato in inverno dalle peschiere (che incontreremo tra poco) e dalla antistante valle e stipato all’interno della giassara (questo è stato fatto fino agli inizi del 1900). Per rimirare e studiare il magnifico portale l’unica maniera è farlo dall’esterno (attenzione perché la strada è trafficata); si può arretrare fino al margine erboso situato di fronte (area di sosta) e da lì, in sicurezza, ammirarne la bellezza e la simbologia.

In alto, suprema figura collocata al di sopra di tutte le altre,  è la dea Diana, riconoscibile per la mezzaluna e in veste di cacciatrice con i suoi attributi classici. L’iscrizione alla base recita: Al Monte al Colle al Pian Diana impera. E’ monito ma anche obiettivo finale: la purificazione. In alchimia Diana è l’Oro dei Saggi, l’acqua mercuriale dei Filosofi che dopo la nigredo assume il suo aspetto cristallino e poi bianco (seconda fase, Albedo). Con la mano destra regge alta una freccia con la punta rivolta verso il basso, forse a indicare la direzione da prendere (il Giardino); ammonisce il soffiatore, lo pseudo-filosofo che vorrebbe entrare senza intenzione di lavorare in simbiosi con la natura. Lungi da qui! sembra dirgli Diana. Fu probabilmente scelta come figura centrale perché dea dei prodigi e delle mutazioni, oltre che della caccia, custode delle fonti e dei torrenti, delle selve e soprattutto dei parti. Dispensatrice di sovranità, viene spesso sovrapposta alla divinità lunare Selene; in molti riti romani Diana era venerata come divinità trina: punto di congiunzione della terra e della Luna, personificazione del Cielo, in contrasto con Ecate (divinità del Regno dei Morti). I Barbarigo volevano che il Giardino fosse sinonimo di Vita, lieta e gioiosa; con le sue prove ma superabili, avendo fede in se stessi e nel divino. Ciò che stupisce, dato che doveva essere un’opera eretta per voto a Dio, è non trovare simboli cristiani ma pagani, come le divinità mitologiche. Gregorio Barbarigo era tra l’altro uomo di Santa Romana Chiesa (vescovo, cardinale, poi beato e anche santificato): probabilmente era un “uomo universale”. “Già dal 1400 la cultura dell’epoca e la società aristocratica erano letteralmente rapite dai riscoperti valori del mondo classico e, visto l’allora enorme influenza della Chiesa, bisognava cercare un modo di conciliare la dottrina cristiana con la filosofia greca e dell’antica Roma. Marsilio Ficino (1433-1499), filosofo, umanista e astrologo fiorentino, fu uno dei primi a tentare questa conciliazione tra il cristianesimo e gli ideali classici del mondo greco e latino ed iniziò un’ epoca in cui tutte le figure della classicità venivano rivisitate in chiave religiosa e venivano messe al servizio della religione Cristiana[7].

Scendendo con lo sguardo si incontrano delle figure di canidi: il cane da guardia con la testa girata verso sud ha un’iscrizione che recita: “In battaglia fedel, vigile in pace”. Il cane da guardia a destra (che guarda verso Nord) reca scritto: “Guarda l’inferno, no, ma il paradiso”. Se fossero cani di differente sesso (cane-cagna) starebbero a significare lo zolfo (principio fisso) e il mercurio (principio volatile) preparati in vista dell’Opera.

Nella chiave di volta dell’arco centrale si osserva un mascherone barbuto, forse Sileno, antica divinità greca antecedente a Dioniso. Si presenta con un aspetto di uomo virile e in atto di vocalizzare qualcosa; Sileno ha disprezzo dei doni terreni, è saggio e ha il dono della divinazione. Legato alla danza che si eseguiva durante la vinificazione, secondo una tradizione latina da Sileno discendono satiri e ninfe. E’ interessante anche un episodio della sua vita (mitologica): avrebbe perso la strada e avrebbe ricevuto da re Mida (colui che trasformava tutto in oro) una guida in grado di indicargli la via da seguire. Potrebbe quindi essere stato posto qui sopra l’arco per accogliere i visitatori e ricordare loro di seguire la retta via. E’ il Vecchio Saggio o (come direbbe Fulcanelli) il Filosofo. Tuttavia la nostra guida in carne e ossa ci riporta ad un’altra interpretazione: il mascherone barbuto potrebbe simboleggiare la dinastia dei Barbarighi, che trassero il proprio nome dalla folta barba portata dai suoi membri. La posizione, appena al si dotto della dea Diana ma al di sopra delle altre sculture, potrebbe alludere al fatto che i proprietari della villa e del Giardino non si considerassero inferiori a nessuno! Interessante è anche il mascherone nella chiave di volta dell'arcone del cancello.

Nella nicchia a sinistra è posto Atteone, con relativa iscrizione: “Cangi forma Atteon se muove il piede”.  Si riferisce alla tradizione mitologica e alla trasformazione in cervo inflittagli da Diana, che lo riteneva reo di averla vista di nascosto mentre faceva il bagno; di questo il giovane cacciatore si accorse solo specchiandosi in una fonte e finì sbranato dai suoi stessi cani, che non lo riconobbero. Questo mito viene interpretato in ambito alchemico come una metafora ermetica e l’ unione del principio maschile con quello femminile.  Atteone è assimilabile al principio maschile, solare, solfureo che ha la fortuna di vedere Diana nuda (denudazione filosofica) cioè  la materia purificata. Al di sotto di Atteone sta la figura barbuta di un popolano con un otre. Nella nicchia dal lato opposto si trova Endimione, con relativo distico “Puote solo Endimione fermar la luna”. E’ un personaggio della mitologia greca, figlio di Etlio e di Calice, sposato a una naiade ma- secondo un mito – amante di Selene, dea Luna. Secondo Plinio il Vecchio sarebbe stato il primo a osservare le fasi lunari con estrema cura (da qui avrebbe trascorso tutto il suo tempo sotto lo sguardo della dea, personificazione della Luna). E’ colui che, per intercessione divina, “dorme ad occhi aperti” ed è eternamente giovane. Simboleggia il principio maschile e fisso, solare e solfureo, che deve compensare ed equilibrare continuamente quello femminile e volatile, lunare e mercuriale. Al di sotto, come dall’altra parte, si trova la statua di un popolano con un barile di vino. Terminata la lettura (seppure non esauriente) delle sculture più importanti del portale, una volta entrati nel Giardino (passando, come già detto, da sinistra e a piedi) si inizia il percorso portandosi proprio all’interno della porta, nel cosiddetto Padiglione di Diana. Da qui si può affacciarsi sul “paludo” e, dalla parte opposta, verso il Bagno di Diana

E’ indubbio che lo spirito ne tragga giovamento, con uno scenario tanto bello e piacevole! Ma dobbiamo ricordare il cammino di purificazione che qui avveniva, pertanto usciamo dall’arco di Sileno e avviamoci verso il Decumano o Teatro d’Acque, che è disposto lungo l’asse Est-Ovest: è infatti un viale costeggiato da peschiere, fontane e statue. Le peschiere sono tre: le prime due appartenenti al progetto originario seicentesco (quella dei Fiumi e  quella dei Venti) mentre quella dei “pesci rossi” fu realizzata nel XIX secolo durante la proprietà dei Martinengo da Barco. Prima di proseguire ci giriamo per guardare le quattro statue che si trovano sulla balaustra del Padiglione di Diana e che non sono visibili dall’esterno: sono state create infatti per chi fosse già nel Giardino, essendo rivolte verso di esso.  

Si tratta di Apollo, il dio Sole fratello di Diana, in cui i Barbarigo si identificavano: in questa villa – lontana dalle altre dimore patrizie del Brenta – non avevano rivali ed erano il perno intorno al quale ruotava la comunità. Il distico sul basamento della statua recita: “Che non è Sole il Sole se non è solo”. In ambito alchemico  Apollo simboleggia l’oro (che può anche abbagliare!). Accanto troviamo la statua di Giove, “E solo a giovar Giove fu detto”. La guida ci dice che la sua ragione di essere qui è che, essendo il padre degli dei, regola e governa gli agenti atmosferici, proteggendo il giardino e mantenendo la giusta alternanza di pioggia e di sole. In Alchimia Giove è simbolo dello stagno (potrebbe trattarsi di differenti stati della materia sotto l’azione del fuoco, il Sole). Ercole, la successiva statua, è l’allegoria delle varie fasi che l’adepto deve attraversare per realizzare la Grande Opera. L’iscrizione recita: “Vinse Alcide fanciul Homo fu vinto”. Il patronimico poetico che lo definisce è Alcide, derivante da Alceo (suo nonno paterno putativo). Chiude il quartetto la statua di Mercurio (Hermes dei greci), il messaggero degli dei che la guida spiega come a Valsanzibio fosse possibile avere un contatto diretto con Dio (nell’intento dei committenti). In realtà sotto questo “soggetto” si cela uno dei Principi occulti costitutivi la Materia (alchemica); non ha alcuna relazione con il mercurio volgare. Il distico recita: “Nella lingua Mercurio e nella mano”. Rilassiamo i sensi e godiamoci la spettacolare bellezza che si distende dinnanzi a noi: un cigno nero solca le tranquille acque della Peschiera dei Fiumi o Bagno di Diana, caratterizzata da una vasca rettangolare chiusa sul fondo da due divinità fluviali che impersonano verosimilmente i due fiumi padovani con gli orci: il Bacchiglione e il Brenta. Ciascuno reca un distico: “Per culla ha il monte, e ha per tomba il mare” (il Brenta), “Riposa il fiume e non riposa l’Onda” (il Bacchiglione). Anche in questi due cartigli è probabile vi siano allusioni ermetiche relative alla preparazione della materia. La fase della putrefatio è superata:allegoricamente varcato l’arco di Sileno abbandoniamo il peccato per cominciare la purificazione. Inizialmente si tratta di una purificazione passiva dove l’acqua cristallina e pura dei fiumi inizia un allegorico lavaggio della nostra anima”.

Superiamo una Fontana chiamata dell’Iride o dell’Arcobaleno, per via degli effetti prodotti dall’acqua, dall’aria e dai raggi solari, è alimentata da quattro putti che afferrano zampillanti pesci. “Se splende il sole, è sempre possibile trovare un punto in cui scorgere l'arcobaleno tra gli zampilli”, dice la nostra guida. Questa fontana, dalla forma circolare, si interpone tra la Peschiera dei Fiumi (o Bagno di Diana) e la della scenografica Peschiera dei Venti. A predominare Eolo, re dei Venti, assiso in trono con la bella ninfa Deiopea accanto. Eolo con il suo scettro  tiene a bada Borea (incatenato sulla destra e raffigurato barbuto e burbero) e gli altri venti: il benefico Zefiro, a sinistra, è raffigurato come un giovinetto dalle leggiadre sembianze perché è il vento di primavera che scaccia il cattivo tempo. Gli altri venti stanno rannicchiati nelle grotte sottostanti, da dove soffiano aria sulla Terra, mentre tintinna una fresca cascata. La scena potrebbe significare che i “regimi” dell’Opera vanno attentamente controllati e bisogna procedere cautamente. “Dei venti Eolo signor, e i scioglie, e i leva. Nel sen Deiopea riposa il vento; Sconvolge Borea il mar, Scuote la Terra. Più che soave qui Zefiro spira”. E sulla statua del putto: “Con l’aure scherza, e fa del nulla gioco Del Cigno, e del candor si veste, e ride”. Allusioni ermetiche.

Il Decumano (o via d’Acqua) sta per incrociare il Cardo e all’incrocio proprio al centro del Giardino – si trova la Fontana della Pila o della Conca. Guardando davanti a noi vediamo chiaramente la Villa e a qualcuno potrebbe venire il desiderio di avvicinarsi e concludere il percorso, visto che sappiamo che lì c’è il Piazzale delle Rivelazioni ma … siamo pronti per riceverle? No di certo. Osserviamo la bella fontana ottagonale in marmo rosso: ricorda la fons vitae (la fontana della giovinezza degli alchimisti). Il manufatto, oltre a costituire l’omphalos del giardino, è equidistante dai quattro punti più significativi: a sud il Labirinto e la Grotta dell’Eremita, a nord il Monumento al Tempo e l’Isola dei Conigli.  Labirinto e Grotta dell’Eremita si trovano opposti tra loro, divisi dal Gran Viale (o cardo), così come Cronos e l’Isola dei Conigli. 

La Fontana della Pila si erge nel punto di accumulo delle acque e dei cammini, che convergono insieme. Le acque discendendo da Nord, Ovest e Sud della Valle qui si accumulano per poi defluire nella sottostante palude. C’è un ulteriore motivo che riveste di grande importanza questo punto: l’itinerario cambia direzione, è necessario se si vuole ottenere un cambio di rotta, una conversione in senso positivo di se stessi e allora non bisogna avere fretta o sentirsi accecati dalla brama di avere le soluzioni a portata di mano, il risultato facile. Lavorare su se stessi diventa indispensabile e allora usciamo dalla vista della Villa, arretriamo e ripieghiamo in un angolo nascosto che ci consenta di metterci alla prova. Un tempo l’ingresso al Labirinto non era visibile, bisognava cercarlo. 

Oggi, per i visitatori, esso è stato facilitato ma il Labirinto di Valsanzibio è lo stesso di quasi 400 anni fa. Le siepi di bosso vengono costantemente manutenute e curate. L’esperienza è da fare: si tratta di 1500 m di percorso dipanato su una pianta concentrica che riserva insidie e trabocchetti. Impegnati tra i meandri, attorniati da alte pareti di bosso alte fino a cinque metri (!), ci sentiamo veramente piccolissimi, racchiusi nella realtà immanente (limitata e scandita dallo spazio-tempo). Mentre ci accingiamo a scoprire quale sarà la via giusta che ci porterà al centro del labirinto e alla libertà (dell’anima), ci ricordiamo delle quattro statue che contornano la Fontana della Pila. Le prime due – verso la direzione del Labirinto – sono maschili, Argo e Mercurio. Argo reca un’iscrizione che dice: “E ne fu con cent’occhi Argo il custode”, Mercurio porta invece il distico: “E ne portò Mercurio il gran messaggio”. Secondo la mitologia greca,  Argo e Mercurio (Hermes) sono legati dal mito: Argo è un gigantesco mostro dotato - secondo le versioni - di uno, di quattro oppure di cento occhi (il distico, a Valsanzibio, dichiara “cento”) che non chiudeva mai tutti insieme, infatti non dormiva mai. Compì imprese eroiche ma in particolare esercitò la funzione di custode (come dice il distico) di Io, una ninfa amata da Zeus: Era (moglie del dio) aveva incaricato Argo di sorvegliarla poiché lei stessa, Era, aveva tramutato la ninfa in giovenca. 

Argo sarebbe poi stato ucciso da Mercurio (Hermes) – inviato da Zeus per liberare Io - usando il suono della siringa per farlo addormentare; dolcemente gli narrò la storia di Pan e l’amata ninfa Siringa e quando Argo fu assopito, gli tagliò la testa e gli cavò i cento occhi con una falce. Era raccolse quei cento occhi di luce e li trasferì sulla coda del pavone, uccello a lei sacro. Mercurio è qui raffigurato intento a suonare la siringa, meglio nota come “flauto di Pan”(strumento musicale a fiato composto da più canne forate di diversa lunghezza unite tra loro da un trapezio). In questa narrazione sono contenuti significati ermetici importanti. Le altre due statue che contornano la Fontana della Pila sono femminili e molto aggraziate: una rappresenta la Fecondità “Che la Fecondità del mondo è madre” e l’altra la Salubrità, il cui distico recita: “Trovi Salubrità chi cerca vita”.

Intanto ci troviamo ancora nel labirinto. I bossi sempreverdi (Buxus Sempervirens) sono secolari, appartenendo alla primitiva realizzazione del dedalo vegetale su progetto di Luigi Bernini (1664-1669). A quel tempo molti erano i nobili che se ne facevano realizzare uno all’interno dei loro meravigliosi giardini, e non facevano eccezione i ricchi patrizi con le loro ville sul Brenta. Il labirinto costituiva un forte richiamo ludico per gli ospiti, ma chiaramente ha in sé una natura misterica e iniziatica, ben nota da millenni. Il Cristianesimo ne aveva fatto l’immagine di redenzione dai peccati, specialmente in epoca medievale, quando i labirinti si diffusero in moltissime chiese e cattedrali, espressi in forme diverse, in posizioni diverse e su diversi manufatti (pavimenti, pareti, pietre, affreschi…). 

Coloro che non potevano compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme (S. Sepolc, potevano percorrere in ginocchio i meandri del labirinto, entrando come poveri penitenti, ignoranti e ciechi, e trovando la strada verso la salvezza e la conoscenza, guidati dalla luce cristica, uscendo purificati e rinnovati. Tra cinque e seicento i labirinti, non più così in voga nei templi cristiani, divennero uno dei temi prediletti dei monumenti e dei giardini barocchi. Il duplice significato, di gioco e di simbolo, li rendeva di grande “moda”. Il cardinale Barbarigo aveva una ragione specifica per volere un labirinto a Valsanzibio:  doveva costituire un’ importante tappa nel percorso di salvificazione e simboleggiava per lui l’arduo cammino della perfettibilità umana. Il percorso prevedeva, allora come oggi, tredici trivi e quadrivi (9 trivi e 4 quadrivi), scorciatoie (illusorie che non portano a niente e bisogna tornare sui propri passi), sei vicoli ciechi (corrispondenti ai primi sei vizi capitali: Avarizia, Accidia, Gola, Ira, Invidia, Lussuria), un duplice e confluente circolo vizioso che rappresenta il settimo vizio capitale (la Superbia) e una sola strada corretta. Mentre si cammina, si sbaglia, si procede, non si vede la meta, si deve essere aiutati dal filo di Arianna (sulla simbologia del Labirinto abbiamo trattato in altra sede). Superate le paure, le incertezze, abbandonate le nostre scorie impure, superate le prove siamo in grado di raggiungere il centro del labirinto (e di noi stessi, la nostra anima). Troviamo una torretta, saliamo e dall’alto possiamo ammirare la perfezione del lavoro della natura e dell’uomo. Dominiamo le nostre acque interiori e possiamo trovare la strada per uscire dal labirinto. Oggi tutto è semplificato, ovviamente: i visitatori non sono tenuti a percorrere il labirinto (si può farlo con un costo aggiuntivo al biglietto di ingresso) ma tutti possono accedere direttamente alla Torretta (gratuitamente). In ogni caso il dedalo è sempre sorvegliato, in caso di necessità, e l’uscita è sempre garantita. Capirete che tutto dipende da come si vive un cammino, se è un gioco o un percorso meditato. 

E proprio per corroborare l’esperienza che i neofiti avevano fatto nel labirinto, con una nuova consapevolezza si dirigevano nella Grotta dell’Eremita (o Romitorio) che ha accanto anche la Fontana dell’Eremita. Anche noi compiamo questo tragitto ma ahimè la grotta è chiusa internamente (pare vi sia una camera nuda e cruda). E’ nella solitudine, nell’oscurità e nel silenzio che l’individuo mette a fuoco le Cose, ricordando il motto “Nosce te ipsum” (Conosci te stesso, e poi continua “e conoscerai l’universo degli dei”). Tra l’altro, ci ha fatto notare la guida, usciti dalla grotta si entrava tra le fronde di un faggio pendulo, che creavano una sorta di stanza vegetale. Il fiero albero è purtroppo morto e aveva raggiunto la ragguardevole età di 350 anni. Vi è comunque un altro faggio pendulo vigoroso di circa 80-90 anni. Del resto il parco è ricco di piante secolari ed essenze, di cui parleremo tra poco.

Labirinto e Grotta furono creati volutamente opposti, topograficamente, divisi dal Gran Viale (cardo) ma equidistanti dalla Fontana della Pila, come già accennato, la quale è l’omphalos del Giardino. Ed è qui che facciamo nuovamente tappa, lasciando il Romitorio; ora la meta è chiara: dirigerci verso il Piazzale delle Rivelazioni  ma dobbiamo ancora svolgere una parte di cammino, affinchè arriviamo pronti alla meta ma ricevendo utili e preziosi insegnamenti. Le due statue femminili tornano a parlarci con i loro messaggi scritti alle basi e gli elementi che le accompagnano: la Fecondità mostra una famigliola di conigli ai suoi piedi, e tiene un nido pieno di uccellini nelle mani,  mentre lo guarda con cura; sul capo mostra una significativa corona di senape (pianta aromatica, il cui nome latino è Brassica nigra). Di questa pianta si serve Gesù per una delle sue parabole: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senape, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma una volta cresciuto è più grande di tutti i legumi e diventa un arbusto, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano tra i suoi rami” (Mt. 13,31-32; Mc. 4,30-32; Lc. 13,18-19). 

La statua – oltre che a contornare la Fontana della Pila – si trova accanto alla peschiera ellissoidale che circonda l’Isola dei Conigli (o Garenna); la vicinanza qualifica l’isola come “Isola della Fecondità” e tutt’oggi vi razzolano serafiche bellissime famigliole di conigli e, nella voliera, pappagalli (un tempo altri tipi di uccelli). L’isola, che è un esempio unico nei pochi giardini d’epoca esistenti,  è legata all’immanente: l’individuo è costretto a vedere se stesso come essere “fisico” limitato dal corpo stretto fra i confini dello spazio e del tempo (si nasce, si cresce e si muore), in una “prigione dorata” come i conigli, ma consapevole che liberando l’anima (la sua pietra filosofale) diventerà immortale. A livello più prosaico, l’isola garantiva alimentazione: i conigli erano un cibo prelibato e nell’anello d’acqua si allevavano pesci per la mensa dei signori. Prima di proseguire, si osserva la terza peschiera, che conclude il Teatro d’Acqua (Decumano) iniziato subito dopo il Portale di Diana. Come già accennato, questa peschiera, detta dei pesci rossi, è ottocentesca e non rientra nel progetto simbolico iniziale; forse fu aggiunta per avere una simmetria (in effetti sembra completare molto bene la pianta architettonica del giardino) e per allevare i pesci. Un tempo qui non c’era acqua ma vi era- a detta della guida – uno spazio prativo dove si trovava lo stemma Barbarigo ricavato con pianticelle e fiori.

 

Contrapposta all’Isola dei Conigli vi è la collinetta ellissoidale che ospita il bellissimo Monumento al Tempo, simboleggiato da Cronos. I due manufatti sono divisi dal cardo e sono equidistanti dalla Fontana della Pila, come avevamo già detto. E infatti è l’altra statua femminile che la contorna, la Salubrità, ad essere giustapposta accanto al parterre da cui sorge il monumento al Tempo.  “Trovi Salubrità chi cerca Vita”, recita il distico alla base della statua, la quale ha ai suoi piedi un’Aquila e nella mano sinistra una colomba; con la destra, invece, regge il simulacro di un volto umano, che viene interpretato  come “l’immagine di Zefiro, vento della primavera che rinnova e purifica,  indica l’ alta importanza da assegnare alla purezza delle intenzioni”. L’aquila è lo spirito costretto nella materia che si libera solo dopo la fase di riscaldamento prolungato nell’ l’athanor (il forno alchemico o filosofico). Arrivati alla statua della Salubrità, il neofita sapeva che doveva proseguire verso la sublimazione. Infatti il simbolismo dell’aquila in alchimia, è impiegato per indicare l’elemento maschile e solare, fisso e solfureo, in grado di estrarre quello acquoso, femminile e volatile (la Bianca Vergine o la Colomba, ciò che di più elevato è in noi, incorruttibile e immortale). In tal modo si avrà la separazione della luce dalle tenebre, lo Spirito dalla Materia. Con la morte della dimensione materiale, originerà il rebis o cosa duplice (essere androgino), risultato della seconda opera.

Prima di proseguire ci lasciamo incantare da uno stupendo esemplare di Cedro della California, piantato qui attorno al 1665. Va ricordata l’importanza del patrimonio arboreo del Giardino monumentale di Valsanzibio, che comprende – oltre a piante già esistenti in loco prima della sua realizzazione e inglobate nel progetto – centinaia di piante secolari, alcune delle quali piantate tra il 1664 e il 1669 (circa il 60-70% delle piante odierne risalgono al progetto originario del Bernini e del Barbarigo!). Nel Giardino Botanico (anch’esso visitabile) prosperano 800 alberi e vi sono più di cento essenze diverse. Sappiamo che ciascun vegetale assumeva un simbolismo preciso nei giardini d’epoca: venivano pensati accuratamente gli accostamenti giusti tra le piante ma soprattutto perché ritenute sinergiche al percorso iniziatico. Le erbe aromatiche servivano in cucina mentre le essenze per la cosiddetta spagiria (o alchimia vegetale) venivano coltivate per preparare pozioni e unguenti terapeutici. La necessità di avere piante specifiche nel Giardino iniziatico giustificherebbe anche la fatica di farle arrivare fin qui: alcune di esse infatti, come appunto il Cedro della California, provengono dal Nuovo Mondo. Fu prelevato dallo stato americano e caricato su nave per affrontare il lungo viaggio marittimo, che durava circa otto mesi; per mantenerlo in vita si usò acqua dolce preventivamente razionata. Si seguì la rotta oceanica fino a giungere ai porti spagnoli o portoghesi ed è qui che verosimilmente i Barbarigo acquistarono l’esemplare. Dovendo trasferirlo però fino a Valsanzibio, lo fecero caricare su un’altra nave che attraversò lo Stretto di Gibilterra, entrando poi nel Mar Mediterraneo e quindi nell’Adriatico, approdando a Venezia. Dal porto veneziano il Cedro venne caricato su un’altra imbarcazione adatta a navigare lungo il Brenta, giunto al Canale di Battaglia Terme trasferito su altro natante e giungere alla palude della Valle di Sant’Eusebio (Valsanzibio). Tanta fatica (e spesa) dovevano trovare una giustificazione importante, benché possedere piante esotiche fosse considerato prestigioso e motivo di vanto; inoltre sembra che i Barbarigo nemmeno sapessero se le piante potessero attecchire nel clima padovano né come sarebbero diventate crescendo. La guida ci ha informato che al tempo in cui arrivarono alcune specie arboree dal Nuovo Mondo, non avevano una classificazione: una lista di 30 piante erano accompagnate dalla dicitura ”piante del nuovo mondo” (sarebbero state identificate successivamente).

Il giardino ospita diversi tipi di cedri oltre quello della California, come i Cedri Atlantici (Cedrus atlantica) e i cedri Indiani o Diodara (Cedrus deodara). Il cedro è simbolo dell’elevazione spirituale, di immortalità ed eternità.

Contrapposto all’Isola dei Conigli o della Fertilità e diviso da questa dal Viale Centrale, si trova il monumento al Tempo, personificato da Cronos, la cui iscrizione recita: "Volan col tempo l’hore, e fuggon gli anni”. Il Dio del tempo e padre di Zeus/Giove è associato all’Età dell’Oro in cui gli uomini vivevano felicemente. Il dio ha le ali ed è in posizione inginocchiata: il ginocchio sinistro poggia a terra e il destro è piegato a far appoggiare il gomito mentre la mano tocca il capo, che è ruotato completamente verso ovest. Con la mano sinistra Cronos tocca una clessidra appoggiata a terra. Sulla schiena porta il peso di un grosso dodecaedro che, nella teoria dei Quattro Elementi, è il poliedro associato alla “quintessenza”, elemento-spirito, essenza del mondo celeste che tutto avvolge e comprende; nella tradizione alchemica questa figura è utilizzata per indicare l'elemento ultimo e costitutivo dei corpi. Virtù celeste di origine divina che dà vita all’universo è strutturato secondo una “sancta” proporzione (per dirla alla Pacioli)[8]. Bellissima iconografia questa di Cronos, quindi, che sembra schiacciato dal peso del dodecaedro: l’immortalità ha sconfitto il tempo, la caducità della vita. La clessidra, in effetti, è tenuta risolutamente ferma da Cronos stesso, come se egli volesse sancire un tempo nuovo o “Primo Tempo”, l’Età dell’Oro. E’ questo il premio per il neofita! La trascendenza, l’abbattimento dei confini spazio-temporali.  Il dodecaedro è stato interpretato dalla guida anche come allegoria dei dodici mesi dell’anno e ha fatto notare come le facce del poliedro vengano diversamente illuminate a seconda delle ore del giorno e della notte (dal Sole o dalla Luna).

Pur se confortati da notevoli ragionamenti, il cammino non è ancora concluso: tornati sul Gran Viale (cardo) il Piazzale delle Rivelazioni è vicino, lo vediamo ma … cosa succede? Dalla Fontana delle Insidie sprizzano getti d’acqua e anche dalle panchine (se qualcuno avesse pensato di riposarsi…). Pensata dai Barbarigo e dal Bernini come piacevole scherzo da fare agli ospiti, questa fontana del Putto o delle Insidie è inserita nell’aiuola più grande; al centro vi è un fanciullo con un cesto nel capo dal quale escono zampilli ed è circondata da scherzi d’acqua ma cela un altro significato, destinato ai neofiti e racchiuso nel distico “Non sta sempre tra i fior nascosto l’angue” (angue = drago o serpente). Forse il committente intese alludere all’attenzione che bisogna porre alla propria superbia, all’arroganza, alla mancanza di umiltà, che potrebbero compromettere tutto il lavoro fin qui svolto. Un passo falso e sarebbe la rovina per il neofita … Forse possono andargli in aiuto le quattro statue che contornano la Fontana, due maschili e due femminili. Si tratta di Polifemo, il cui distico recita: “Polifemo tra ciechi Argo rassembra” (alludendo qui alla sua funzione di guardiano di una soglia proibita oltre la quale i mortali non possono andare) e di Tifeo, con l’iscrizione: “Ne giunse al ciel Tifeo benché gigante”. Sembrano abbastanza eloquenti … Soffermiamoci sulla figura di Tifeo o Tifone: il suo nome significa “fumo stupefacente” (secondo Fulcanelli, significa “riempire di fumo, accendere, incendiare”[9]) e secondo la mitologia greca egli fu l’ultimo titano figlio di Gea (la Terra) e Tartaro; sposò Echidna e insieme ebbero diversi figli mostruosi tra cui Cerbero,  Idra di Lerna, Chimera, Leone Nemeo, il Drago della Colchide che custodiva il Vello d’Oro (tutte allegorie ben note agli alchimisti). Generalmente Tifeo viene raffigurato come essere mostruoso con la testa di serpente e busto umano, dotato di cento teste giganti vomitanti fuoco e straordinariamente forzuto. Volle sfidare Zeus per rovesciarlo dal trono e questa lotta fece tremare il cielo e la terra. Tifone però fu vinto dal Fulmine celeste e fatto precipitare nel Tartaro[10], dove tutt’ora provocherebbe terremoti ed eruzioni vulcaniche, continuando a tormentare la terra che lo ricopre (Treccani). 

Trasposto all’allegoria alchemica, la lotta tra Zeus e Tifone è quanto avviene nel crogiolo ermetico tra due opposte Nature, Umori o Elementi: Umido/Secco, Mercurio/Zolfo; il movimento della terra che sale verso il cielo (come avviene nei terremoti) a livello ermetico “esprime la sublimazione ed vaporazione dei metalli dopo la loro cottura. Tifeo è anche infatti la prima necessaria cottura, quella che mescola gli elementi e li confonde, l’amplesso cosmico, la fusione di tutte le cose. Non è l’ordinario caos, anzi esprime un preciso ordine, altro e più antico rispetto a quello di Zeus olimpico, ma siamo in presenza del prezioso “caos dei filosofi” della nigredo. Tifeo rappresenta il “Solve” alchemico del Sale filosofico”, scrive Giacomo Maria Prati[11]. L’autore aggiunge anche un altro concetto importante: “Tifeo, la mistura universale, non sa estrarre e detenere le essenze, va quindi sottomesso affinché accenda il magma del Vulcano alchemico”. E Fulcanelli scrive “E’ prigioniero di una prigione così robusta che la natura stessa non riuscirebbe a farlo uscire, se l’arte industriosa non ne facilitasse i modi”[12]. Ecco perché il distico sotto la statua di Valsanzibio recita: “Ne giunse al ciel Tifeo benché gigante”. Questa statua non è mostruosa (si notano orecchie appuntite e lunghe dita della mano) ma il distico lo qualifica inequivocabilmente; inoltre regge nelle mani una grossa pietra e sembra in atto di scagliarla, il che può essere letto in una duplice chiave: mitologica (scaglia lapilli come i vulcani o muove le pietre come i terremoti) o allusione alla pietra filosofale. Le due statue femminili, opposte alle precedenti e più prossime alla meta finale, sono Ope e Flora. Sembrano garanzia di successo, infatti Ope è la personificazione della terra, dispensatrice di abbondanza in agricoltura; è un’arcaica divinità romana assimilabile a Rea, Demetra, Cerere o Cibele. Il distico che le è associato recita: “Della terra  Ope dea de’ dei la madre”, volendo suggerire che Ope sia la madre degli dei (infatti ha il pargoletto Giove accanto e lo sta nutrendo). 

La seconda, Flora, “Portando in grembo Flora i colti fiori”, “è simbolo di primavera, di rinnovamento e di quei profumi immateriali che accompagnano l’elevazione spirituale simboleggiata dal monumento al Tempo e preannunciati dalla Salubrità”. L’Alchimia è sempre stata messa in relazione con la ciclicità della vita e alle quattro stagioni. La primavera riporta all’immagine del risveglio dell’intelligenza o risveglio iniziatico. «I Saggi»  scrive Fulcanelli «sapendo che il sangue minerale di cui avevano bisogno il corpo fisso e inerte dell’oro, non era altro che una condensazione dello Spirito Universale, Anima di tutte le cose, sapendo che questa condensazione avveniva soltanto di notte, col favore delle tenebre, del cielo puro e dell’aria calma; sapendo, infine, che la stagione in cui essa si manifestava più abbondantemente corrispondeva alla primavera celeste, i Saggi, per tutte queste ragioni, le diedero il nome di rugiada di maggio». È durante la notte ermetica (nostro buio) che si possono catturare o condensare le illuminazioni, che però necessitano della calma e purezza della psiche. Queste illuminazioni possono essere più abbondanti soltanto nel mese di maggio, il mese della Madonna o del mercurio filosofico, cioè nello stadio della terza operazione filosofale, quando è stata realizzata la base del Magistero e la psiche non è più vittima di confusioni.

Il neofita ora può procedere verso la meta, che è ad un passo ormai. Lungo il Gran Viale, a destra e a sinistra, sgorgano due fontanelle dette dei Facchini o dei Gobbetti (allusione al gergo ermetico “servo fuggitivo”, dato all’argento vivo, alias la nostra pietra dei filosofi?). Diritto davanti a noi c’è la Villa, preceduta da una cancellata. Per accedere al cancello, che è rigorosamente chiuso, vi sono sette gradini che formano una bella scala, la Scalea del Sonetto, ai lati della quale –a sinistra e a destra – stanno le Fontane delle Lonze. I due felini hanno le fauci spalancate e si abbeverano avidamente allo zampillo d’acqua che continuamente scende da un rubinetto. Quella a ponente è accompagnata dal distico: “della fera più fiera è sete fiera” mentre quella di levante obbedisce al distico ”della sete l’ardor temprano l’acque”. La sete di conoscenza va ritemprata … La lonza (un grosso felino simile alla lince) è un animale che Dante Alighieri cita nella Divina Commedia, quando si smarrisce nella selva oscura (Inferno, Canto I) e incontra tre belve (lonza, leone e lupa) che gli impediscono di scalare il colle. In realtà sono allegorie di disposizioni peccaminose che frenano la sua elevazione spirituale: la prima che incontra è la lonza, che quasi certamente allude alla lussuria (il leone è la superbia, la lupa è l'avarizia).

I sette gradini invitano a salire ma i Barbarigo avevano pensato a tutto, pur di far riflettere l’ospite sul cammino intrapreso: a coloro che avessero voluto avanzare verso l’ingresso del Piazzale delle Rivelazioni (che precede la Villa) senza badare a “qualcosa” di importante, sarebbero stati ripagati a dovere! Infatti - ieri come oggi- gli incauti visitatori potevano beccarsi un bello scherzo d’acqua: da fori sul pavimento può uscire acqua zampillante, da un momento all’altro. A che cosa dobbiamo prestare attenzione, dunque? Sui gradini è inciso un sonetto, donde il nome di Scalea del Sonetto. Sarà un caso che i gradini sono sette? Certamente non lo è; inoltre l’Alchimia è chiamata anche Arte della Musica perchè nella fase cruciale si producono sette suoni, sette sibili in scala armonica crescente che indicano il buon andamento delle operazioni. Su di esse l'artista deve modulare il fuoco  adattandolo in perfetta armonia con il cambiamento delle note. Altresì sono legati a questa ultima fase i sette colori dell’iride (così come la luce bianca origina i 7 colori del prisma, che si possono ridurre ancora alla luce bianca), i sette metalli primari, che si possono “ricondurre” al Mercurio dei Filosofi. Ai sette metalli corrispondono i sette pianeti dell'astronomia e dell'astrologia antica. Tutto, nell’Universo, evolve verso la perfezione: i metalli vili in oro, l’uomo alla divinizzazione, e i Barbarigo avevano questo obiettivo. Leggiamo il sonetto, disposto su sette righe (due versi per gradino):

Curioso viator che in questa parte Giungi e credi mirar vaghezze rare
Quanto di bel, quanto di buon qui appare Tutto deesi a Natura e nulla ad Arte

Qui il Sol splendenti i raggi suoi comparte Venere qui più bella esce dal mare
Sue sembianze la Luna ha qui più chiare Qui non giunge a turbar furor di Marte

Saturno quivi i parti suoi non rode  Qui Giove giova et ha sereno il viso
Quivi perde Mercurio ogni sua frode Qui non ha loco il Pianto, ha sede il Riso
Della Corte il fulmine qui non s’ode Ivi è l’Inferno e quivi il Paradiso

Esso, composto da anonimo (senza escludere Gregorio Barbarigo stesso) viene variamente interpretato dalle guide come una celebrazione del luogo e dei suoi committenti. Un luogo dove regna la pace e non la guerra, lontano dalla Corte (Venezia) dove c’è l’inferno mentre qui è il Paradiso. Ma riteniamo umilmente che sia più pertinente correlare il sonetto inciso sui sette gradini con la ricerca iniziatica iniziata fin dal Portale di Diana. L’ultima parola del sonetto richiama il Paradiso (terrestre) e Fulcanelli scrive: “La parola greca che indica il paradiso sembra derivi da una radice persiana o caldea Pardès, che significa Giardino delle delizie […]. Lo stesso significato è riferito dalla Bibbia al meraviglioso soggiorno dei nostri primi genitori […]”. Il sonetto intero sembra sancire l’inizio di una nuova era e al contempo una metamorfosi dell’individuo, morto a se stesso e rigenerato. Saliamo i gradini; due putti sulla balaustra sembrano darci il benvenuto e grazie al fatto di avere una guida, possiamo aprire il cancello per accedere al Piazzale delle Rivelazioni. Il nome la dice lunga. Al neofita – che ora si è elevato al rango di Adepto – possono svelarsi i distici delle otto statue che contornano il piazzale ricordando che esse, un tempo, contornavano il giardino preesistente al piazzale. Ma non solo: l’iniziato può comprendere il significato della Fontana dell’Estasi, delle Rivelazioni o del Fungo

Questo è considerato un simbolo magico, ma soprattutto è collegato all’estasi prodotta da alcuni tipi di funghi allucinogeni (campo dell’etnobotanica e dell’etnomicologia).  Il Piazzale su cui affaccia la Villa padronale sorge in posizione sopraelevata completamente soleggiata (siamo nel punto cardinale Sud); è un inno alla Natura e ai suoi doni, come se si volesse ricreare il Paradiso in terra. E’ sinonimo dell’ Età dell’Oro, durante la quale Adamo ed Eva vissero nello stato di semplicità e innocenza ed ermeticamente è quella condizione “in cui l’Uomo, rinnovato, ignora qualsiasi religione. Rende solo grazie al Creatore, il cui sole – la sua più sublime creazione – gli sembra che ne rifletta l’immagine ardente, luminosa e dispensatrice di bene. Egli rispetta, onora e venera Dio in quel globo radiante che è il cuore e il cervello della Natura ed il dispensatore dei beni della terra […]. In seno all’irraggiamento dell’astro, sotto il puro cielo di una terra ringiovanita, l’uomo ammira le opere divine, senza manifestazioni esteriori, senza riti e senza veli. Contemplativo, ignora il bisogno, il desiderio e la sofferenza, egli conserva per il Padrone dell’Universo quella commossa e profonda riconoscenza posseduta dalle anime semplici e quell’affezione senza limiti che lega il figlio al Padre. L’età dell’oro, età solare per eccellenza, ha come simbolo ciclico l’immagine stessa dell’astro, geroglifico usato in ogni epoca dagli antichi alchimisti per indicare l’oro metallico o sale minerale. Sul piano spirituale è impersonata dall’evangelista San Luca (luce, lampada, torcia) […]

La lettura delle statue inizia da sinistra e procede in senso orario verso destra (così le ha elencate la guida, dicendoci che le prime quattro rappresentano le qualità del Giardino, le altre le qualità del signore (Barbarigo, il committente). In realtà non sappiamo come fossero disposte in origine e non è facile ricostruirne la disposizione in maniera coerente con i procedimenti ermetici, tentiamo comunque di darvi un senso. La prima statua raffigura il Diletto e l’iscrizione dice: “Regnan le Grazie ove Diletto impera”. E’ un inno e ringraziamento alla Natura perché le Grazie (derivanti dalle Cariti greche) sono personificazioni degli aspetti della Grazia (o benevolenza di Dio, potremmo interpretarlo come il Donum Dei degli alchimisti) ed erano originariamente legate alla natura. Sono tre dee della gioia di vivere che infondono la gioia della Natura nel cuore degli dei e degli uomini mortali. Secondo la mitologia sono figlie di Zeus e di Eurinome (sorella del dio fluviale Asopo) oppure della moglie di Zeus (Era); secondo un’altra versione sarebbero figlie di Apollo (il dio Sole) e di una ninfa; secondo un’altra ancora il loro padre sarebbe Dioniso e la loro madre Afrodite (Venere), dea della bellezza e della fertilità. Le Grazie comunemente riconosciute sono Aglaia (corrispondente allo Splendore), Eufrosine (Gioia o Letizia), Talia (Prosperità e Portatrice di fiori). Incarnano la perfezione verso cui l’essere umano dovrebbe tendere e non a caso sono citate in questo distico alla base della statua di Diletto, soggetto che potrebbe intendersi qui come allegoria del processo intellettuale che porta l’uomo alla Conoscenza (e quindi all’autorealizzazione e alla conquista della pietra dei Filosofi). Qui a Valsanzibio è  raffigurato con un violino nella mano sinistra. La seconda statua è femminile e rappresenta l’Allegrezza, come indica il distico (molto rovinato) che recita: “Allegrezza non dà gemina morte” (tra le mani, portate all’altezza della spalla sinistra, tiene una sorta di  disco ma è parzialmente coperto dalla mano destra); la terza è l’Ozio, raffigurato da un personaggio maschile, barbuto, non più giovane ma dal portamento fiero. 

Nella mano destra trattiene verso la coscia quella che sembra una torcia e con l’altro braccio tocca un tronco d’albero. Il dito indice della mano sinistra sta indicando qualcosa sulla superficie del tronco tagliato, forse un’iscrizione. Il distico alla base della statua dice: “Del moto al fin l’Ocio e la quiete è la fine”, che significa: l’Ozio e la quiete sono la fine del moto, del movimento. Può riferirsi al lavoro dell’Opera che, una volta realizzata, consente all’Adepto di godere del riposo e del tempo libero, godendosi i frutti che la natura gli ha dispensato. Può anche essere la pausa dell’inverno (morte) in attesa della primavera (risveglio, rinascita, rigenerazione). L’Ozio infatti, contrariamente a quanto significa oggi (l’Ozio è il padre dei vizi, si suol dire), non aveva un senso negativo, originariamente. Seneca, nella sua opera De Otio, composta nel 62 d.C., lo inquadra come il momento della riflessione sui grandi valori che il saggio conduce non solo per se stesso, ma anche per gli altri. La quarta statua è femminile e raffigura l’Agricoltura, con il distico che afferma: “Ogni virtude Agricoltura pasce”, cioè l’Agricoltura nutre (o anche governa) ogni virtù. Ricordando che l’Alchimia è chiamata “Agricoltura celeste” perché l’alchimia “mostra, con le sue leggi, le sue circostanze e le sue condizioni, un rapporto strettissimo con l’agricoltura terrestre. Non c’è autore classico che non prenda i suoi esempi e non basi le sue dimostrazioni sui lavori campestri […]. I discepoli di Hermes riceveranno l’aiuto necessario a compiere la Grande Opera se interrogheranno la natura, se osserveranno il modo in cui essa opera: allora sapranno discernere quali sono i suoi mezzi e si ingegneranno ad imitarla da vicino. Se non si lasceranno respingere e non cadranno in errori, diffusi a profusione anche nei migliori libri, vedranno senza alcun dubbio il successo coronare, alla fine, i loro sforzi”[14]. Questi insegnamenti possono trovare espressione nella statua successiva, il Genio (dell’Agricoltura), con il motto: “De l’arbitrio la forza il Genio sforza”. Procedendo con la sesta statua troviamo una figura alata, pensosa, androgina; il gomito destro è appoggiato a un tronco da cui dipartono alcuni rami tagliati, regge con la sinistra un libro ma non lo sta leggendo perché lo sguardo è rivolto all’orizzonte (o davanti a sé). Il distico recita: “Angel divien chi in solitudine vive”. L’angelo (secondo il Glossario alchemico di R. Ambelain) simboleggia la sublimazione, ascensione di un principio volatile. La statua successiva è qualificata dal distico alla base: “Di predator preda rimase Adone”. Si tratta di Adone, una divinità semitica il cui nome significa “signore” (Adonai, in ebraico). E’ un riflesso del ciclo delle stagioni, di cui impersona l’inverno, la morte della natura che prelude al risveglio, alla rinascita e rigenerazione in primavera. Tuttavia sembra di vedere due grappoli d'uva trattenuti con la mano sinistra...

L’ultima delle statue presenti nel Piazzale delle Rivelazioni è l’Abbondanza: come potrebbe essere altrimenti? Se il cammino iniziatico è giunto al termine, procedendo sulla Retta Via, quale miglior premio per colui che si è impegnato nel lavoro filosofico alla ricerca della propria autorealizzazione? La “pietra dei Filosofi” regala tutti i doni della Natura simboleggiati dalla cornucopia che la dea tiene, mentre il distico recita: “Spande i tesor né l’Abondanza scema”. Chi ha saputo trovare il tesoro lo vedrà moltiplicarsi (come la polvere di proiezione) e l’Abbondanza non scemerà mai.

La Villa si staglia maestosa, dipinta nelle tonalità del giallo e del rosso; vi sono altri otto gradini per accedere al portone principale (otto come il Nuovo Giorno, quello successivo alla Creazione. Potrebbe simboleggiare l’Uomo Nuovo, battezzato a nuova vita). Non sappiamo se fossero originali o di un’epoca successiva. Sicuramente nei secoli alcune trasformazioni sono state necessarie. Attualmente non è abitata (i proprietari vivono in un edificio accanto). Il parterre è costituito da siepi tagliate in forme geometriche: piramidi, parallelepipedi, sfere, cilindri, cubi. Per mantenerle in perfetto stato, potate e rigogliose sono sempre all’opera giardinieri specializzati, coordinati dal capo-giardiniere che è il discendente dei Pizzoni Ardemani, che ha conseguito un’apposita laurea in botanica per potersi occupare in prima persona del Giardino di Valsanzibio. La sua speranza è che i figli proseguano con la stessa passione e competenza. L’immensità di lavoro da svolgere in questo monumento naturale è infatti elevatissima. Il Giardino barocco all’italiana si qualifica tra i più significativi a livello internazionale. E’ perfettamente conservato e per la sua tutela è richiesta la collaborazione di tutti coloro che lo visitano, evitando di calpestare aiuole e usare i percorsi pedonali, ad esempio; ovviamente è vietato estirpare qualsiasi tipo di vegetale. Le aiuole d’erba attorno alle fontane e nel viale principale fanno parte – si legge- dell’architettura del Giardino e i bordi sono ancora tagliati manualmente con tecniche arcaiche, così come sono le tecniche per la potatura del bosso, tagliato con il filo a piombo.

Non sono compresi nella visita: la Serra degli Agrumi, la Villa e la Foresteria. La visita, una volta lasciato il Piazzale delle Rivelazioni,  si può invece prolungare - ridiscendendo dalla Scalea del Sonetto - alle antiche Scuderie nei pressi delle quali hanno sede un book-shop e un punto ristoro (oltre ai servizi). Nelle vecchie scuderie sono appese fotografie d’epoca dei membri della attuale famiglia proprietaria, i conti Pizzoni Ardemani, e dei loro illustri ospiti: dall’allora principe del Galles Carlo d’Inghilterra (attuale re Charles III) a diversi attori (sono stati girati alcuni film e tutt’ora si tengono eventi di moda, costume, cultura). Il ritorno può avvenire lungo il viale dell’Iride, per ritrovarci al cospetto della già vista Fontana dell’Iride che ora, dopo aver effettuato il percorso, assume una connotazione più significativa. Ricominciamo daccapo?

  • Autrice della ricerca: Marisa Uberti (pubblicato il 14/12/2023)
  • Le notizie sono state tratte durante la visita guidata, dai pannelli in loco e dal portale ufficiale del Giardino Simbolico www.valsanzibiogiardino.com. Altri rif. bibl. sono indicati nelle rispettive note
  • L'interpretazione in chiave "alchemica" è nostra ed è stata attuata liberamente dalla scrivente rivistando assunti appresi nei diversi anni di semplice passione verso l'Arte di Hermes. Siete invitati a dirci il vostro parere e/o le vostre interpretazioni. Grazie!

 



[1] Villa Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio Galzignano Terme (PD), 31 agoto 2023, sul portale ViviGreen: https://www.vivigreen.eu/blog/villa-barbarigo-pizzoni-ardemani-a-valsanzibio-galzignano-terme-pd/

[2] Per approfondire si veda la scheda dell’ Irvv (Istituto Rgionale Ville Venete) Regione Veneto, Villa Barbarigo, Pizzoni Ardemani https://irvv.regione.veneto.it/xw/lod/front/file/74869.pdf

[3] Elena Macellari, “Ivi è l’Inferno, quivi il Paradiso…Passeggiando a Valsanzibio tra i Colli Euganei”,  Architettura & Design, 24 giugno 2015 https://www.meer.com/it/15615-ivi-e-linferno-qui-il-paradiso-dot-dot-dot

[5] Un distico è una strofa formata da una coppia di versi, solitamente legati da una rima

[6] Breve riassunto di Valsanzibio, su “arte euganea.net”:  https://www.arteuganea.net/images/documenti/guida-giardini-villa-barbarigo.pdf

[7] ibidem

[8] Per approfondire vedasi Francesca Cortesi Bosco, Il “Diogene” del Parmigianino, Alchimia e Geometria, in Matepristem, Progetto Ricerche Storiche e Metodologiche, Università Bocconi, Milano, https://matematica.unibocconi.eu/articoli/il-diogene-del-parmigianino-alchimia-e-geometria

[9] Fulcanelli, Le Dimore Filosofali, vol. II, p. 119, Edizioni Mediterranee, ristampa 2002

[10] Realtà tenebrosa e sotterranea, impersonificata in un dio, marito di Gaia (la terra); secondo una leggenda, Tifeo/Tifone risiederebbe sotto l’Etna

[11] Il trionfo ermetico di Dioniso. Le dionisiache di Nonno quale anabasi sapienziale, 28 giugno 2023, https://www.meer.com/it/74240-il-trionfo-ermetico-di-dioniso

[12] Fulcanelli, cit., p. 119

[13] Fulcanelli, cit. p. 217-18

[14] Fulcanelli, cit, pp. 74-75