Sotto il segno del mistero

                                                              (di Marisa Uberti)

 

 

La frase che ho scelto per intitolare questo articolo è stata scritta da un sacerdote, Mons. Gianfranco Pesenti (Arciprete di Gravedona), riferendosi al Crocifisso[i]conservato nell’antichissima chiesa di Santa Maria del Tiglio, di cui sopra vediamo l'ingresso principale. Posto di fronte al lago, questo monumento sacro si trova nell’incantevole cittadina di Gravedona, nell’Alto Lario, in provincia di Como. Cerchiamo dunque di addentrarci in questo mistero, visto che siamo per natura curiosi e desiderosi di conoscenza.

 

Il visitatore che arrivi da forestiero davanti al complesso monumentale costituito dalla chiesa di San Vincenzo e da S. Maria del Tiglio, non può fare a meno di lasciarsi sfuggire un’esclamazione di meraviglia! In particolare colpisce la seconda, per la sua struttura architettonica, la bicromia, la posizione, l’aspetto vetusto. Eppure la chiesa che le sta accanto, San Vincenzo, è ancora più antica, perlomeno coeva poiché in epoca paleocristiana dovevano costituire, insieme, un complesso formato dalla basilica con battistero a parte. Il tutto eretto su un pre-esistente sito sacro pagano.

 

   La chiesa di S. Maria del Tiglio e, a destra, è visibile la parete nord della chiesa di S. Vincenzo

 

La cittadina fece parte della Repubblica delle Tre Pievi (Gravedona - Sorico e Dongo), territorio semi-indipendente lombardo costituito dopo il 1183 (Pace di Costanza), alla fine delle osilità tra il Barbarossa e i Comuni lombardi. Il territorio delle Tre Pievi fu, per circa quattro secoli (XII- XVI secolo) un importante centro di diffusione del cristianesimo; ebbe il privilegio di avere propri magistrati, di battere moneta e di avere un proprio vessillo. Gravedona era il centro più antico ed importante di questa Repubblica[ii]. E’ opportuno ricordare che la posizione della cittadina è da sempre stata strategica e appetibile, trovandosi all’incrocio tra un asse viario lacustre e uno montano. Vale a dire che il primo porta ai valichi con la Svizzera e da qui al centro dell’Europa e il secondo si sviluppa lungo la Strada Regina, una via di grande comunicazione conosciuta fin dalla remota antichità: tale direttrice costeggia tutto il Lario e si insinua poi tra la Val Chiavenna e la Valtellina, spingendosi oltre le Alpi fino a Coira e, da lì, nuovamente nel centro dell’Europa. Gravedona, insediata ben prima dell’epoca romana, fu molto importante in epoca carolingia, quando il clero deteneva grande potere e in seguito fu sede di zecca, con il privilegio di battere moneta. Nel Medioevo vi passarono sicuramente i Crociati (che forse hanno qualcosa a che vedere con il misterioso Crocifisso ligneo di cui ci occuperemo tra poco?).

 

                       

Lo stemma della Repubblica delle Tre Pievi è ancora oggi l'emblema dei tre paesi che ne facevano parte. Nella foto, rappresentazione pavimentale nel centro storico di Dongo, nei pressi della chiesa medievale di S. Maria di Martinico

 

  • La chiesa plebana di San Vincenzo

 

Si doveva trattare di un insieme costituito dalla chiesa paleocristiana e del suo battistero. In epoca “pagana”, in questo stesso luogo, si trovava un’area sacra, testimoniata dal ritrovamento di tre are (di cui ne sopravvivono due ancora oggi mentre una terza fu asportata dal vescovo di Como Lazzaro Carafino, nel XVII secolo). Come spesso accade, il luogo pagano venne riconsacrato in senso cristiano con l’erezione di chiesa e battistero nell’alto medioevo, ma dei quali sappiamo poco; è probabile che l’area fosse anche adibita a cimitero.

Una data certa per la consacrazione della chiesa di S. Vincenzo è il 1072, la prima domenica di settembre. All’attualità delle conoscenze, si sono individuate almeno tre fasi nella costruzione romanica del S. Vincenzo: due anteriori alla consacrazione del 1072 e una posteriore. La parte monumentale colonnata della chiesa, cioè il portico innalzato nel XVII secolo per racchiudere il sagrato antistante, appare molto scenografico ma è aggirando l’edificio sui lati che gli amanti dell’architettura romanica scopriranno le reminescenze più antiche, i blocchetti di pietra di Moltrasio disposti in conci regolari, le monofore, gli archetti pensili (cui seguì un innalzamento in senso verticale in epoca posteriore), le partiture originarie.

 

 

L’edificio romanico risentiva dell’influsso tedesco-ottoniano (vi era una tribuna sovrastante la prima campata della chiesa) e si trovava ad un livello notevolmente più basso di quello odierno e non di molto superiore a quello dell’attuale cripta. Quest’ultima, oggi aperta al pubblico, si trova allo stesso livello del piano di calpestio del battistero paleocristiano, le cui absidi avevano luci equivalenti a quella dell’abside maggiore della cripta.

Sul lato settentrionale esterno della chiesa, una doppia scala immette in questa magnifica cripta, in cui alcuni elementi a intreccio risalgono all’epoca carolingia.

 

     

 

La cripta è suddivisa in tre settori che corrispondono alle tre antiche absidi; il vano centrale è costituito da tre corte navate, suddivise da quattro file di colonne. Interessanti i capitelli, per la maggior parte di tipo cubico, che mostrano di non corrispondere con il fusto delle colonne stesse. I fusti delle colonne, infatti, hanno anche basi dimensionalmente differenti, proprio per riportare alla medesima altezza le colonne e tutto ciò significa che i fusti sono di reimpiego (asrcivibili all’età romana). Tra colonne tutto sommato “simili”, ve ne sono due completamente diverse (le due esterne della seconda campata) e costituite da grossi pilastri cilindrici realizzati con gli stessi conci bicromi della vicina chiesa battesimale di S. Maria del Tiglio.

 

    

     

          Reperti litici di varia epoca, depositati nelle absidiole laterali della cripta

 

La presenza di questi due robusti pilastri indica che dovevano sostenere il carico di una struttura sovrastante (presbiterio sopralevato della chiesa superiore). La copertura originaria doveva essere a crociera e forse sosteneva il grande Crocifisso ligneo. Il pavimento è costituito da lastre variegate tra loro (preesistenze); sono stati individuati due pozzetti e due ampie corone circolari formate da blocchi ben lavorati, una delle quali è chiusa centralmente da un consunto frammento di epoca carolingia, recante sbiaditi motivi a intreccio e floreali.

 

           

 

L’abside maggiore della cripta presenta preziosi lacerti di affreschi databili al XIII- XIV secolo.

 

                            

 

Le navatelle laterali erano provviste di due ampie monofore, che ci fanno capire come l’edificio non dovesse essere interrato come oggi. Uscendo dalla cripta e spostandoci sul lato sud, scopriremo i resti dell’absidiola meridionale, parzialmente ancora distinguibile (v. foto seguente):

 

 

  • La chiesa battesimale di Santa Maria del Tiglio

 

Il lago è di fronte a noi, il paesaggio mirabile, con l’orizzonte delle acque che sembrano fondersi con il cielo azzurro. Da qui osserviamo bene le tre absidi posteriori della chiesa di S. Maria del Tiglio, situata a pochi passi da S. Vincenzo. Si notano, alla sommità, evidenti interventi di rifacimento, per probabili incendi o crolli di ignota natura; il rigore compositivo che è rispettato nel resto del monumento, infatti, qui viene a mancare (casuale reimpiego dei materiali bicromi).

 

 

La costruzione è bellissima, circondata da un tappeto erboso che riecheggia del tempo in cui l’area sacra romana doveva essere immersa nella natura, tra terra, cielo, acqua e fuoco (la pietra baciata dal sole). Giuseppe Merzario nella sua biografia sui Maestri Comacini[iii] informa che il Muratori la diceva già antica nell’anno 823 d.C. (a sua volta tale sarebbe stata descritta dal cronista francese Aimoino). “Quella fabbrica subì parecchi restauri che in quachle parte ne alterarono la semplicità e la naturale fisionomia. Ma quando si pensi che essa è fattura di mille anni indietro, quando si consideri il disegno leggiadro e si ponga attenzione alla sveltezza ed eleganza di alcune arcate, finestre, colonne e colonnine, non si può non riconsocere e non confessare che fin da quei tempi eravi fior d’arte nel territorio di Como e ne’ Maestri Comacini”. Ne ha, infatti, tutto lo stile (dei nostri Magistri) e facciamo nostre le parole con cui Merzario conclude il breve accenno a S. Maria del Tiglio di Gravedona, rifacendosi al Dartein: “[…] Per la forma elegante dell’insieme, l’originalità e la varietà delle diverse parti, la bellezza dei materiali, l’esecuzione accuratissima dei muramenti e i preziosi affreschi delle pareti interne, la chiesa merita d’essere considerata come un monumento di primo ordine, degno delle premure le più solerti”.

Andando sul davanti, contempliamone la facciata: partiamo dal basso, ove il paramento murario presenta caratteri evoluti di grande raffinatezza, sia sul piano formale che cromatico. Il basamento è continuo e modanato; i conci squadrati e levigati si alternano sapientemente in file orizzontali bianche e nere; il portale è strombato e la lunetta presenta un’architave che pare di reimpiego. Più sopra occhieggiano dei blocchi squadrati bianchi, simbolici: uno riporta il serpente annodato, forse di matrice longobarda; uno il cervo ferito da una feccia conficcata nella gola, forse partita dall’arco del Sagittario, figura scolpita sul blocco all’estremità sinistra. Tra loro, una rappresentazione geometrica degna di attenzione. Salendo ancora si incontrano gli archetti pensili, ciascuno realizzato in un unico blocco, sormontati da denti di sega. Una strettissima monofora (quasi una feritoia), risalta in posizione disassata, rispetto al portale.

 

Su questa stessa facciata, poco più in alto, si nota una "faccina" scolpita, ma non alla maniera dei Comacini, infatti dovrebbe essere una testa di epoca romana, proveniente da un corredo funerario. Su due blocchi diversi, si osservano delle protuberanze tondeggianti, come delle mammelle (ricorderemo che raffigurazioni di seni femminili scolpiti sui muri esterni delle chiese, pur se rari, non sono impossibili da trovare, come abbiamo visto ad esempio nel S. Secondo a Mongiglietto, comune di Cortazzone (AT). Nel caso di Gravedona, però, i due seni non si trovano vicini come sarebbe ovvio, ma su due blocchi differenti e pure disallineati! La tradizione popolare chiama questi elementi "i tett de la regina” (le mammelle della regina), attribuendoli alla regina longobarda Teodolinda, che effettivamente passò di qui, come abbiamo visto.

 

                        

                                   

 

Particolare è l’ingresso di questa chiesa, rche sembra rappresentato da un “tutt’uno” con la torre campanaria, che si staglia nel cielo terminando a più ordini sovrapposti di forma ottagonale. Anch'esso è un mistero: è quello originale del XII secolo?

 

 

A destra dell’ingresso è ben visibile una delle due are romane (la seconda è all’interno):

 

 

 

Nel 1953 vennero rinvenuti, all’interno dell’edificio, il fonte battesimale e il perimetro murario dell’antico battistero, datato tra il V e il VI secolo d.C.; la d.ssa Zecchinelli (Soprintendenza ai Monumenti) riportò che i muri erano spessi 60 cm ed erano costituiti da grossi ciottoli e blocchi irregolari legati da malta durissima, rivestiti esternamente da intonaco tenace e levigatissimo, molto impermeabile, specialmente dalla parte verso il lago. La chiesa battesimale era di forma quadrata, triabsidata, orientata sull’asse Est/Ovest, segnato dall’altare e dall’ingresso. All’interno, il battistero o fonte si trovava al centro, aveva forma ottagonale ed era dotato di tre gradini per scendere all’interno, trattandosi di un fonte ad immersione. Ma quali erano le sue misure?

L’edificio doveva essere molto importante perché lo troviamo citato in epoca carolingia negli Annali dell’Abbazia di Fulda con il nome di San Giovanni Battista (dedicazione tipica dei battisteri cristiani). Vi aveva fatto visita anche l’imperatore Ludovico il Pio, di passaggio sul Lario, perché a quel tempo (823 d.C.) un affresco raffigurante l’Adorazione dei Magi (situato nel catino absidale), aveva “brillato” e tenendo conto che il dipinto versava in pessime condizioni poiché già vetusto, il fatto doveva aver costituito un “fenomeno anomalo”.

Nella visita pastorale del 4 luglio 1599, il vescovo Archinti descrisse un piccolo pozzo, vicino all’altare della Madonna, contenente acqua miracolosa, sotto una pietra dove si trovavano delle sepolture. Quest’acqua veniva attinta in caso di infermità e, nel caso mancasse, si prendeva la terra per essere ugualmente risanati. Si comprende che i fedeli facevano delle abluzioni o la mettevano direttamente a contatto della parte malata. In una relazione testamentaria del 18 agosto 1686 (dr. Alessandro Cazzola), l’acqua miracolosa è ancora viva nei ricordi, anche se “al momento” il pozzo era asciutto, “non entrandovi altra acqua che quella che vi porta il lago con la sua escrescenza”, (trovandosi la chiesa proprio sulle sponde). Il punto si trovava a poca distanza dalla Cappella maggiore e dietro la cancellata che separava le cappelle dal resto della Chiesa. La zona era localizzata alla destra della citata Cappella, quasi sotto il pulpito; qui si trovava un buco nel pavimento, distinguibile con una lapide di marmo bianco con larghezza di un palmo per quadro, coperto con una pietra di colore nero, sempre di marmo. Là sotto era il “bagno miracoloso” per l’intercessione della Beata Vergine Maria che la tradizione popolare attestava da molti secoli e faceva risalire al tempo della Regina Teodolinda. La sovrana longobarda avrebbe immerso nell’acqua taumaturgica il suo amato cagnolino, affetto da lebbra, che ne uscì risanato. La Regina- in segno di riconoscenza - avrebbe così finanziato i lavori per il restauro di quell’edifici sacro. L’acqua del pozzo era comunque ancora considerata prodigiosa nel 1686, cioè dopo molti secoli, e chiunque ne bagnasse le dita e si facesse il segno della croce, avrebbe avuto la guarigione per intercessione della Beata Vergine, la cui immagine era effigiata nell’affresco dell’ Adorazione dei Magi, di cui abbiamo parlato poc’anzi, e molto venerata perché ritenuta miracolosa.

Un luogo davvero speciale! Ma che ne è stato di quel pozzo e dell’acqua miracolosa?

E’ stato appurato che la pianta è solo apparentemente centrale, mostrando in realtà una certa asimmetria delle pareti laterali; forse questo è giustificato dalla presenza di due ingressi a sud, di fronte alla chiesa matrice di S. Vincenzo.

 

                       Uno dei due ingressi (oggi murato) posti sul lato meridionale

 

                 Lunetta affrescata sovrastante il secondo ingresso posto sul lato meridionale

 

Entrando all’interno, si rimane sorpresi dalla “raccolta vastità” che emana: così ci è sembrato! Raccolto ma vasto, come se le pareti racchiudessero tutto il cosmo in miniatura. E’ spoglio, se si eccettuano alcune opere degne di attenzione, ma le sue pietre non hanno bisogno di arredo, anzi, riescono meglio ad esprimere la loro primigenia sacralità e a mostrarci quanti rimaneggiamenti hanno subito...Un luogo magico, un'architettura dell'anima. Nicchie, rientranze, loggiati, colonne, archi, ghiere, fanno trasalire, insieme all'alternanza dei colori, alla luce dosata che filtra dalle monofore disposte su livelli diversi, e quell'eco di memorie che sembra proprompore dalle sue forme...Meraviglia.

Sul pavimento si trova un lacerto di mosaico policromo (nero, grigio, bianco e rosso), pertinente all’area battesimale; le pareti della vasca erano in opus sectile, composto da lastre marmoree triangolari bianche e nere, esattamente come il pavimento delle tre absidi. La tavola d’altare dell’abside maggiore è stata recuperata da uno scavo; si tratta di una mensa dell’antico altare, in marmo di Musso delle dimensioni di 108 cm x 76 cm, che era stata reimpiegata come lastra pavimentale! Non si sa quali eventi determinarono il crescente sviluppo d’importanza di questa chiesa[iv], tanto che godeva di pari dignità del S. Vincenzo, di cui poteva quasi considerarsi “gemella”. I documenti tacciono fino al XII secolo, quando troviamo S. Maria del Tiglio equipaggiata con canonici e preti ordinari che affiancavano l’arciprete di San Vincenzo nella permuta di beni e ricezione di “fitti e decime”[v].

Da segnalare numerosi affreschi, alcuni purtroppo fortemente mutili o illeggibili, altri con i colori ancora vivi e scene parlanti.

 

                               Abside Maggiore e le due laterali (lato Est)

 

           

                                               Galleria superiore colonnata

 

                          Lato Sud; si notino i residui di affreschi alle pareti

 

 

A destra, bellissimo volto superstite di un affresco ben più ampio, oggi scomparso; a sinistra raffigurazione di Sant'Anna Metterza. [Metterza è il termine derivato dal volgare medievale, riferendosi a S, Anna, madre di Maria, che si mette per terza nella gerarchia della famiglia divina, accanto a Maria e Gesù]

 

L’affresco della Cappella Maggiore è scomparso; in quella destra si nota l’ara romana riutilizzata nella parete divisoria. Sempre in questa Cappellina si osserva una curiosa rappresentazione geometrica della parete, simile a quella che si trovava nei Santuari romani di epoca repubblicana. Lo strato sembra applicato direttamente sulla pietra, forse preprata con una base di colore bianco. A che epoca risale questa serie di affreschi?

 

            L'ara romana reimpiegata come sostegno di un semiarco del lato sud-est

 

Per terra un segno ottagonale indica forse la presenza dell’antico fonte battesimale (ma le dimensioni sono esigue per poter parlare di “immersione”). Sulla controfacciata è presente la figura integra di un San Cristoforo, patrono dei pellegrini e dei viandanti, a dirci come questa chiesa fosse una meta devozionale e di sosta.

 

  Pavimentazione centrale dove doveva trovarsi la vasca battesimale (recintati, i resti musivi)

 

San Cristoforo (controfacciata)

 

Abbiamo lasciato per ultimo il “pezzo forte” della chiesa…

 

  • Il Crocifisso del mistero

 

All’interno della chiesa di S. Maria del Tiglio si trova un’opera tanto straordinaria quanto misteriosa: il Crocifisso ligneo del XII secolo. Da dove proviene? Chi la realizzò? Perché si trova qui e da quanto tempo? Come abbiamo visto, un tempo era attestato nell’antica chiesa plebana di San Vincenzo; fu poi trasferito nel catino dell’abside maggiore di S. Maria del Tiglio e, attualmente, sulla parete nord di questa stessa chiesa. Per qualcuno tale posizione non è consona, per altri consente di stare in raccoglimento e preghiera sotto il Crocifisso stesso. Ricerche d’archivio hanno attestato che nel 1707 era collocato dove lo troviamo oggi; nel 1953 si trovava nell’altare dell’absidiola di sinistra, mentre prima del 1997 era sicuramente sospeso nel catino dell’abside maggiore, quando fu prelevato per eseguirne il restauro. La motivazione più importante della collocazione odierna è la sicurezza: sospeso nel vuoto, ancorato al catino absidale, poteva infatti essere compromesso nella tenuta, perché era stato notato un possibile punto di cedimento strutturale all’altezza dell’inserimento ad incastro dell’asse trasversale[vi].

 

L'attuale collocazione della grande Croce, a sinistra dell'ingresso (per chi entra). Sulla controfacciata è ancora parzialmente visibile il grande affresco del "Giudizio Universale", con la Gerusalemme Celeste in cui l'anonimo pittore trecentesco collocò le scene in riquadri; inserì i riconoscibili campanili della zona (di S. Maria del Tiglio e quello dell'abbazia di Piona)

 

Va detto subito che l’asse orizzontale è un inserimento successivo, mentre l’asse longitudinale della croce e il crocifisso sono ricavati da un unico tronco di legno di pioppo. Oltre il collo del Cristo, l’asse prosegue per circa un metro (Tinunin, op. cit.). Le braccia non sono coeve al resto del corpo, differiscono infatti di circa un secolo e non sono di legno di pioppo ma di ontano. Quante stranezze, quanti enigmi. Dovremmo immaginare il corpo senza le braccia, inchiodato al solo asse verticale…Ma era questa la sua “forma” primitiva? Vediamo cosa hanno appurato i restauratori.

Oggi vediamo infatti l’opera dopo il restauro condotto tra il 1997 e il 2000 dalla Soprintendenza per il Patrimonio Artistico e Demoetnoantropologico per le Province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Sondrio, Varese.

Il Crocifisso è stato esaminato minuziosamente in tutte le sue parti da specialisti, che hanno rilevato sia caratteristiche macroscopiche (visibili ad occhio nudo) che microscopiche. Il peso complessivo dell’opera è di 87, 45 Kg e, come si è già detto, il corpo del Crocifisso[vii] e l’asse verticale della croce[viii] furono ricavati da un unico tronco di albero di pioppo  che non venne svuotato all’interno. Il Cristo risulta, così, avere dei contatti diretti con l’asse longitudinale, in poche parole è attaccato ad essa dalla spalla alla fine del perizoma e dal tallone del piede alla parte terminale della croce[ix]. Dietro questo braccio lungo della croce è presente una scritta relativa al restauro eseguito da Dubini Giuseppe, falegname di Gravedona, il 9 giugno 1869.

 

                  La Croce di Gravedona come si presenta attualmente (gennaio 2016)

 

L’asse orizzontale della croce[x] è dello stesso tipo di legno (pioppo) ma curiosamente le due braccia non lo sono (essendo di legno di ontano) e con stupore gli esperti, analizzandole, hanno rilevato una consistente variazione cronologica (non meno di un secolo), eppure sono le uniche parti che conservano la cromia “originale”[xi], che non è più possibile distinguere invece sul resto del Crocifisso, se non in piccolissime porzioni, ma molto significative. Perché questo pone un interrogativo ulteriore: se le braccia hanno 100 anni di meno, come è possibile che presentino una colorazione identica a quella più vecchia rilevata sul resto del manufatto? Ed eseguita con la stessa tecnica?

Sono state fatte delle ipotesi:

·        non esiste più la cromia originaria;

·        il Cristo originariamente era in legno grezzo e si aspettò a dipingerlo quando vennero aggiunte le braccia;

·        la policromia delle braccia fu eseguita con gli stessi materiali e tecnica  di quella riscontrabile nella figura del Cristo[xii]

 

Lasciamo al lettore la facoltà di apprendere maggiori e particolareggiate informazioni tecniche sui pigmenti, strati, aspetti anatomici, difetti, ecc. che l’ intera equipe ha rilevato sul prezioso reperto[xiii]. Vogliamo concentrarci, invece, su alcuni aspetti che possono coinvolgere il visitatore non specialista.

 

  • Da dove proviene il Crocifisso di Gravedona, anzitutto? Fu realizzato appositamente per la chiesa di S. Vincenzo (dov’era in origine) oppure fu donato?

 

Non abbiamo notizia del manufatto fino al 1599, quando viene citato per la prima volta nella relazione della visita pastorale del 4 luglio (vescovo Filippo Archinti)[xiv]. Sono precisamente descritte sia la chiesa plebana di San Vincenzo che il battistero. In un passo è indicato il vetusto S. Crucifixi, che si prescrive di togliere. Era considerato troppo vecchio e si ordinava di farne un altro, insieme ad un’ architrave nuova. Si disponvea inoltre di restaurare tutta la chiesa perché malconcia. I lavori vennero fatti ma per quasi tutto il secolo XVII non si trova menzione del Crocifisso. Ma come, diciamo noi? Se ne è appena trovata una traccia citata in un documento e già deve sparire?

Nel 1668 il vescovo Torriani (visita pastorale del 21 ottobre) annota la presenza del nuovo Crocifisso nella chiesa plebana di S. Vincenzo, cosa che scrisse anche il vescovo Ciceri nella sua visita pastorale del 1682. Dov’era finito quello vecchio?

Nella già ciatata relazione testamentaria del dr. Alessandro Cazzola datata 18/8/1686 lo troviamo nell’abside della Cappella Maggiore della Chiesa di S. Maria del Tiglio. Lo troviamo sempre nella medesima chiesa ma sulla parete laterale sinistra (come oggi) nel 1707,  nella relazione della visita pastorale del vescovo Francesco Bonesana. Non si sa come mai dall’abside lo si portò sulla parte sttentrionale ma è evidente che il sacro reperto fu tolto dalla chiesa di San Vincenzo dopo la perentoria prescrizione del vescovo Archinti del 1599 (complici anche i lavori i restauro che occorreva fare alla plebana) ed è probabile che venne trasferito nell’immmediatezza  nella chiesa accanto[xv]. Nel 1770 il vescovo Giambattista Mugiasca lo vide ancora sulla parete laterale nord (come oggi). All’inizio di questo paragrafo abbiamo già detto che nel 1953 si trovava nell’altare dell’absidiola di sinistra, mentre prima del 1997 era sicuramente sospeso nel catino dell’abside maggiore, quando fu prelevato per eseguirne il restauro.

Guardiamo però questo fatto curioso: nel 1599 il Crocifisso è considerato “troppo vecchio” e si ordina di toglierlo; come a dire che non esistevano – secondo il vescovo Archinti - validi motivi per restaurarlo e conservarlo in quel posto. O forse, zelante nel seguire i dettami del Concilio di Trento, il vescovo vi vide qualche cosa di poco conforme ai canoni di Santa Romana Chiesa? Sta di fatto che da “troppo vecchio”, lo ritroviamo nel 1770 (quindi quasi due secoli dopo) descritto come “S.mo Crucifixo antiquitate, et miraculis celebri ex pia devotione, et munificenza domini Ioseph Cazolae novissime extructum[xvi]. Il Crocifisso non era stato descritto come “miracoloso” nella visita del 1599, che cosa era dunque successo – nel frattempo - da renderlo così importante e oggetto di grande devozione? Oppure il vescovo Archinti non si curò troppo dell’importanza rivestita dal manufatto, sia a livello artistico che fideistico?

Il vescovo Bonesana (1707) annotava la presenza di due crocifissi, uno usato per le processioni (un Cristo deposto di croce, leggero e facile a portarsi) e l’altro descritto come una “Croce assai grande con Christo antichissimo di legno tinto di bianco” che era di grandissima venerazione presso i fedeli; si dice “che fusse il Christo che stava sopra dell’architrave della chiesa collegiata antica[xvii]. E’ evidente che si riferisse al Crocifisso di cui stiamo parlando.

Le poche notizie non ci dicono nulla, però, in merito alla committenza, alla datazione, alle maestranze che lo realizzarono, e nemmeno se fu acquistato o donato.

A proposito della provenienza, i tecnici rimarcano la somiglianza del Crocifisso con botteghe d’oltralpe e specialmente con il Crocifisso in bronzo dell’abbazia di Werden[xviii]. Forse l’anonimo scultore della grande opera di Gravedona lo prese a modello, come andava in voga fare: i punti di similitudine si rilevano soprattutto nella foggia della capigliatura a trecce attorcigliate che ricadono sulle spalle del Cristo; la barba corta congiunta alle orecchie tramite una caratteristica striscia di peli arricciati; nelle pieghe del perizoma, nella modellazione delle gambe (lunghe e sottili), inoltre simili risultano l’addome gonfio con l’ombelico ben segnato, il torace e le braccia. Tuttavia lo stile è nettamente divergente, ingoffito nell’intaglio ligneo per le dimensioni alterate, fattura più rozza e superficiale, oltre che nell’uso di materiale diverso. Quindi questo fa tornare al punto di partenza: si può parlare di influenza[xix]ma non v’è alcuna certezza sull’officina dal quale uscì questo Crocifisso. Che è ascrivibile a maestranze dotate di sapiente perizia, richiesto da una committenza prestigiosa. L’opera rispetta il classico “canone antropometrico vitruviano e pseudo-varroniano”[xx].

 

Crocifisso di Gravedona, dettaglio del perizoma

 

  • Interessanti curiosità

 

Con il restauro del 1997-2000, l’equipe di specialisti non ha trascurato alcun elemento d’indagine al fine di fornire risposte ai tanti misteri che circondavano il Crocifisso fino a quel momento (misteri che non sono stati totalmente risolti). Molto si è scoperto e, senza entrare in dettagli troppo tecnici (che si possono trovare ben documentati nel libro più volte citato nelle note bibliografiche), al visitatore interessato potranno essere da stimolo alcune notizie curiose. Come già abbiamo detto, la croce longitudinale e il crocifisso furono ricavati da un unico pezzo di legno che non è stato alleggerito svuotandolo al suo interno; solo in un secondo momento furono aggiunte le braccia.

L’analisi del legno condotta dalla d.ssa Elisabetta Castiglioni e Michela Cottini ha consentito di specificare il tipo di legno per ciascuna delle cinque parti[xxi]. L’asse verticale e la statua del Cristo sono in legno di pioppo del genere bianco (Populus alba); ciò è stato confermato dal prelievo di otto campioni in punti diversi che hanno fornito i medesimi risultati.

La datazione al C14[xxii] è stata determinata sulla base di due campioni (uno sul legno di pioppo della figura e uno su quello di Ontano di una delle due braccia), inviati ai Geochron Laboratories Krueger Enterprises, Inc.- Massachusetts.

Essa ha fornito una datazione sensibilmente diversa tra i due campioni: infatti l’asse longitudinale e la statua si collocano alla metà del XII sec. mentre le braccia alla seconda metà del XIII sec. L’indagine sulle braccia ha rivelato quindi le più grosse sorprese poiché non solo il legno da cui furono ricavate è differente (trattasi infatti di ontano[xxiii]) ma hanno anche un secolo di meno, rispetto al resto del manufatto! Come si spiega? Forse il Crocifisso aveva delle braccia originarie (comunque realizzate a parte) che andarono perdute, per un motivo ignoto?

 

 

                 

Una scoperta molto interessante è stata fatta analizzando macroscopicamente l’andamento della fibratura, che alle due esperte ha permesso di capire che la statua (Cristo e asse verticale) fu intagliata capovolta rispetto alla posizione della pianta in vita. La certezza di questo dato è stata fornita anche “dalla scoperta di un ramo secondario ancora parzialmente in posto, un rametto inclinato verso i piedi del Cristo e, quindi, essendo la direzione dei rami secondari rivolta verso l’alto, conferma l’orientazione proposta[xxiv]. Ulteriori osservazioni macroscopiche hanno consentito di determinare che l’albero di pioppo doveva avere un diametro non inferiore ai 54 cm e più probabilmente intorno ai 70 cm (tenendo presente che la parte più larga della statua, quella del perizoma, è di circa 27 cm) e doveva essere alto oltre 4 metri.

Le due braccia vennero ricavate dimezzando longitudinalmente un piccolo tronco di Ontano del diametro di circa 20 cm; vennero poi fissate su un asse orizzontale, divisa in due pezzi, incastrati poi su quello longitudinale. Del primitivo asse orizzontale non v’è traccia (quello trovato dai restauratori risaliva al 1866), e quello che vediamo attualmente è stato collocato con il restauro del 1997-2000, usando Pioppo bianco stagionato e disinfestato.

I segni di lavorazione sul reperto hanno consentito di individuare gli strumenti usati per la sua realizzazione: seghe, pialle, sgorbie, scalpelli…Sono inoltre emerse deformazioni nella tavola, fessurazioni nel legno e sopattutto attacchi di organismi xilofagi (tarli). Dal tipo di “galleria” che questi hanno scavato si è risaliti anche alla famiglia dei tarli presenti e, di conseguenza, al rimedio per fermarne la proliferazione, limitarne il danno e prevenirne di ulteriori.

Nella parte inferiore della statua sono state riscontrate delle bruciature di forma ovale-ellittica, con ogni probabilità causate dall’accensione di ceri dei fedeli, che nel corso del tempo sono venuti in questa chiesa a pregare sotto il venerato simulacro.

Le analisi di campioni di colore prelevati dal crocifisso hanno consentito di stabilire che la statua del Cristo venne preparata prima di essere dipinta, mentre sull’asse il colore è stato applicato direttamente sul legno. Sul retro dell’asse verticale stessa, superiormente, come abbiamo già accennato, è presente la firma del falegname Giuseppe Dubini, che restaurò l’opera il 9 Giugno 1866 (probabile data del termine del lavoro). Egli ebbe un bel da fare perché sono risultati numerosi i segni del suo intervento sul manufatto, il quale doveva versare in condizioni degradate sia a causa della sua antichità (con tutte le sue conseguenze), di precedenti restauri ma anche per le condizioni di elevata umidità dell’ambiente in cui era ed è conservato[xxv]. Problemi con cui si sono dovuti confrontare anche gli specialisti della Soprintendenza nel 1997-2000. Tuttavia le sovrapposizioni di colore che si sono succedute nei secoli, i tentativi di rimediare a distacchi di alcune parti (come nel perizoma), il ripristino delle dita del piede destro (perché danneggiate dalle fiammelle dei ceri), indicano che la Croce godette di attenzioni e di certe cure che le hanno permesso di arrivare fino ai giorni nostri (anche se alcuni interventi restaurativi hanno appesantito il reperto in alcuni punti, danneggiandolo). Del resto abbiamo appreso dalla visita pastorale del 1770 che la devozione popolare verso il Santissimo Crucifixo era forte.

Il risultato finale dei lavori compiuti su questa straordinaria opera di arte sacra tra il 1997 e il 2000  sono sicuramente apprezzabili e soprattutto il monitoraggio costante del manufatto potrà farlo arrivare alle future generazioni.

 

                           

 

Guardando il volto di questo Cristo antichissimo, venuto chissà da dove, ci accorgiamo che racchiude tutto il mistero della Morte e della Vita. E’ un Uomo che non sembra giovane come tanti Cristi rappresentati, è senza tempo, eterno. Ha gli occhi semichiusi, come la bocca, il naso è affilato e l'espressione sembra variare ad ogni nostro passo.

Sul costato manca la ferita della lancia; le gambe sono parallele e i piedi inchiodati non sovrapposti.

Rammentiamo un altro Crocifisso che abbiamo visitato pochi giorni prima di questo[xxvi], quello conservato nel Monastero di S. Maria degli Angeli a Capriolo (BS), datato alla seconda metà del XII secolo, come quello di Gravedona. Si tratta di un Cristo deposto, con le braccia staccate dalla Croce e gli occhi aperti, è il Re Trionfante che ha vinto la morte ed è risorto. Opere diverse tra loro eppure entrambe figlie della stessa epoca, depositarie dello stesso messaggio.

 

                                                                 

 

  • Sono grata a Roberto Rumi per avermi fatto conoscere questo significativo ed enigmatico Crocifisso, insieme alle splendide chiese di S. Maria del Tiglio e di S. Vincenzo.

 

                                                  

 

  • Per raggiungere Gravedona (CO) in auto, da Milano o da Bergamo, è consigliabile prendere la strada statale 36 che da Lecco sale verso Colico, girando poi in direzione Sòrico e scendendo quindi sulla sponda occidentale del Lago di Como. Pullman di linea partono da Colico e da Como. Servizi di navigazione collegano Gravedona con Como e Varenna. Le chiese illustrate sono, di norma, sempre aperte al pubblico. Per informazioni è possibile contattare la parrocchia al numero 0344.85261 (fonte)

 


[i] Mons. Pesenti, Gianfranco “Il mistero del Crocifisso”, in La Croce lignea di Gravedona, Edlin, Milano, 2002, p. 11

[iii]I Maestri Comacini”, vol. I, Capitolo I “Maestri Comacini avanti e durante la dominazione dei Longobardi”, p.60, Casa Tip. Libr. Editr. Ditta Giacomo Agnelli, 1893,  Amiedi Milano

[iv] Forse proprio la presenza dell’acqua miracolosa correlata alla Madonna, che attirava folle di pellegrini e devoti

[v] Casati, Maria Letizia “Note sulle fasi costruttive medioevali delle chiese di san Vincenzo e di Santa Maria del Tiglio”, in La Croce lignea di Gravedona, Edlin, Milano, 2002, p.35 e relative note

[vi] Pescarmona, Daniele “Le ragioni del restauro e della nuova collocazione”, in La Croce lignea di Gravedona, Edlin, Milano, 2002, p.13

[vii] Alto 2,65 m e largo ca 30 cm (notizie ufficiali tratte dalla scheda di restauro, in La Croce lignea di Gravedona, op. cit., p. 17)

[viii] Altezza  3,68 m, larghezza  ca 35 cm, spessore ca 7 cm (fonte: come sopra)

[ix] Tinunin, Claudio “La realizzazione del supporto metallico per la ricollocazione del Crocifisso”, in La Croce lignea di Gravedona,  op, cit., p. 91

[x] Lunghezza 1,10 m

[xi] O comunque riconosciuta come “più antica”, v. Cifrandi Carola, “L’intervento di restauro”, La Croce lignea di Gravedona, op. cit., p.85

[xii] Quest’ultima ipotesi appare, all’autrice del restauro (v. nota precedente), la più verosimile, in quanto dopo cento anni erano ancora largamente in uso le stesse procedute, che le maestranze posteriori conoscevano

[xiii] V. La Croce lignea di Gravedona, Edlin, Milano, 2002

[xiv] Albonico Comalini, Pieralda “Le informazioni delle Visite pastorali”, in ”, La Croce lignea di Gravedona, op. cit., p. 27- 29

[xv] O forse nell’antico oratorio di San Sebastiano, che le fonti indicano tra gli edifici religiosi pià vecchi di Gravedona, chiamato anche Collegiata

[xvi] Questo Giuseppe Cazzola doveva essere discendente del dr. Alessandro, che nella sua relazione testamentaria vincolava 2 leghe imperiali in perpetuo per ogni venerdì di marzo per una Messa da recitarsi presso l’altar maggiore dov’era situato il Santissimo Crocifisso nella chiesa di S. Maria del Tiglio

[xvii] Si riferiva all’oratorio di San Sebastiano?

[xviii] Alto solo 1 m e datato all’ultimo quarto dell’ XI secolo

[xix] Sono stati condotti numerosi raffronti con opere conservate in diverse zone italiane ed europee; sono state  notate influenze sicuramente tedesche, francesi (borgognone), ma si è anche fatta la supposizione di un’unica bottega operante dell’Alto Lario e nella Valle dell’Adda, v. Pescarmona, Daniele “Il Crocifisso”, e anche Tasso, Francesca “Sulle orme del Crocifisso”, entrambi in La Croce lignea di Gravedona, op. cit., rispettivamente alle pp. 19-23 e 45-47

[xx] Pescarmona, D., op. cit. alla nota precedente, p. 23

[xxi]  Corpo centrale, le due braccia e le rispettive tavole

[xxii] Datazione con spettrometria di massa con acceleratore (AMS)

[xxiii] Rimane misteriosa la scelta di questo tipo di legno, se non che può essere giustificata da alcune analogie con il pioppo, quali la leggerezza e la lavorabilità, e la facile fendibilità

[xxiv] Castilgioni-Cottini “Analisi tecnologica del legno”, op. cit., p. 52

[xxv] La chiesa di S. Maria del Tiglio sorge sulle rive del lago, non ha riscaldamento e per diverso tempo il Crocifisso fu tenuto sospeso nel catino dell’Abside Maggiore, di fronte alla porta.

[xxvi] Si veda il mio articolo in merito

 

(Autrice: Marisa Uberti. Testo e foto non possono essere riprodotti senza l'autorizzazione del/dei rispettivi autori e citazione delle fonti)

 

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